E oggi voglio parlare ancora di Lui, mio nonno, come lo viviamo tutti noi, nipoti e pronipoti, ai nostri giorni, riportando ciò che sto scrivendo nel III volume per completare la trilogia, perché si possa sapere di Lui dalla prima parola alla penultima perché l’ultima non verrà scritta mai…
Tu eri, sei, sarai
<Eri nel sentimento che ci legava, nelle storie che raccontavi,
nella generosità che ti contraddistingueva.
Sei
in ogni parola che scrivo, in ogni pensiero che riempie il giorno, in ogni
preghiera che vince il buio della notte.
Sarai l’eredità dell’amore che conoscemmo,
il gesto gentile che da te cogliemmo come fiore che vince il deserto e la
sabbia, la pietra e il cemento, la cima aguzza del monte, gl’inesplorati
fondali marini, la neve che intirizzisce lo scricciolo e riscalda la terra e i
suoi semi.
Sarai la fantasia che colorerà il mondo attraverso
le fiaccole accese di nipoti e pronipoti fino alla generazione che scriverà
ancora il tuo nome sui libri del tempo senza tempo e diventerai mito, santo,
eroe, leggenda senza fine.
Così accade per i giusti e i puri di cuore. Per chi
rinasce infinite volte per le infinite vite che inventò e ne fece dono agli
altri. Con te abbiamo vissuto il dono dell’amore in tutte le sue innumerevoli
forme fino ad identificarsi con il dono della poesia.
Il
giorno che mi venne incontro la poesia,
m’accorsi
che un vecchio-bambino,
per
farmi grandi gli occhi,
m’inventava
parole.
Poi
mi portò per mano in un bosco incantato
dove
le streghe abitavano in castelli di zucchero filato
e
le fate erano serpi distese al sole.
Scoprii
più tardi,
al
tempo delle viole,
che
mai è verità ciò che appare.
La
verità è solo dono d’amore.
Il
giorno che incontrai l’amore,
occhi
immensi attraversò un “ti amo”.
Su
un petalo di rosa il suo richiamo.
Fu
volo rosso fuoco, in un groviglio di stelle
e
un segreto di luna, a trafiggermi il cuore.
Il
giorno che scoprii il mio cuore
era
un giorno qualunque di primavera.
Un
petalo di rosa d’improvviso
giocò
con la magia di due parole…
Sul
filo teso, corda di violino,
acrobata,
saltimbanco il suo sorriso.
Con
grovigli di risate fece capriole
e
non s’accorse di forare il cielo.
Il
giorno che toccai il cielo con un dito,
scoprii
l’azzurro cristallo nel suo ordito.
Sognai
corde d’argento per legarlo ai miei pensieri.
Una
piuma d’angelo cancellò ogni mio ieri.
Si
fece ala immensa, m’accarezzò il viso.
D’arpa
e liuto risuonò il mio paradiso.
M’avvolse
col suo canto di rugiada.
Canto
di tenerezza ritrovata.
E
riscoprii più di mille petali di rosa,
moltiplicando
i “ti amo” senza posa.
(Ma
vero dono d’amore d’ogni mio mattino
è
ancora e per sempre il mio vecchio-bambino).
(a.
d. l., “Il giorno che mi venne
incontro poesia”, poesia inedita)
Ecco, l’amore è moltiplicazione. Mai
divisione. Comprende sempre l’altro, fino a contagiare quanti incontriamo sul
nostro cammino esistenziale ed hanno negli occhi il nostro stesso sguardo
acceso di nuova meraviglia e di antico stupore. L’amore è anche scoperta e
riconoscimento. L’Altro con le sue nascoste verità. Ecco perché l’amore non è
facile. Occorre fare i conti con “l’altro” che è sempre altro da noi, fino a
quando non avvenga il possibile e mai scontato miracolo che di due se ne faccia
uno, come nella splendida poesia di Erri De Luca.
Quando saremo in due, saremo veglia e sonno,
affonderemo nella stessa polpa
come il dente di latte e il suo secondo,
saremo due come sono le acque, le dolci e le salate,
come i cieli, del giorno e della notte,
Quando saremo due saremo veglia e sonno
due come sono i piedi, gli occhi, i reni,
come i tempi del battito
i colpi del respiro.
Quando saremo due non avremo metà
saremo un due che non si può dividere con niente.
Quando saremo due, nessuno sarà uno,
uno sarà l’uguale di nessuno
e l’unità consisterà nel due.
Quando saremo due
cambierà nome pure l’universo
diventerà diverso.
(E. De Luca,
poesia tratta dal libro
Sola andata. Righe che vanno troppo spesso a capo,
Feltrinelli,
Milano 2005)
Ma, fino a
quando ciò sarà solo un desiderio o un’attesa, l’Altro rimane un’incognita, un mistero da scoprire, svelare. Non a
caso, il giorno che scoprii l’Altro da me era un giorno normale, banale, direi.
Ed ero bambina. L’Altro era mamma, eri tu, “papà”, era nonna Angelina, Lizia, mia
sorella. Insomma, non ero io. L’Altro, nella mia casa, era gioco, amore,
tenerezza, calore, fiaba, ma anche litigi, dispetti, rappacificazioni. Tra la
casa e il fuori, l’Altro era più ostacolo che incontro.
Poi l’Altro si trasformò in Amicizia.
Fidarsi e confidarsi. Condividere ore, risate, pensieri, sogni. Fino al
disincanto. Delusione e amarezza. Diffidenza e proponimenti di essere meno
entusiasta degli Altri. Delle cosiddette Amiche. Pugnalate alle spalle e
ferite. Difficili da rimarginare. Dolore. Chi l’Amico? Cosa è l’Amicizia? Cosa
chiede e cosa dà? Innocenza o Inganno?
Poi, scoprii che l’Altro era anche l’Amore. Quello che ti
rode il cervello, ti fa galoppare il cuore, ti lascia immersa nel sogno e ti fa
forare il cielo. Quello che ti fa vivere il dubbio e la certezza, annebbia il
giorno e illumina le notti. Quello che ti fa perdere e ritrovare. Quello che ti
esalta e ti danna. Passione, tenerezza, allegria, pianto. Morte e resurrezione.
Dove il punto fermo? Dove la verità?
Il giorno che ebbi bisogno della
Verità, la cercai dappertutto.
Nel cuore dell’Altro.
Nel cuore dell’Amico.
Nel cuore dell’Amore.
Nel mio cuore.
Ma era dappertutto e altrove.
Sfuggente e indefinibile.
Imprendibile. Presente e assente. Vicina e lontana. Inconoscibile. Mi dannai a
cercarla. A spiegarla. Secondo me. Secondo te. Ma allora non è una la Verità? Non
esiste La Verità. Sono tante le verità. Quante?
Il giorno che mi illusi di afferrarla
finalmente, ero proprio ad un passo da lei. Usai tutti gli strumenti
dell’intelligenza, tutti gli arnesi del cuore. Le strategie delle emozioni.
Tutti gli appigli della filosofia e i teoremi della scienza. Volevo dimostrare.
Capire e farmi capire. Confrontarmi per convincere e farmi convincere. Senza
vincitori né vinti. Ma vincere CON e, quindi, vincere tutti. Ma… ne uscimmo
tutti sconfitti. Anche la Verità, nonno mio adorato. Il giorno che si presentò
inaspettato e imprevedibile, eppure sempre lì in agguato, in attesa di dire
l’ultima parola e di vanificare tutto: Il
PUNTO DI VISTA. Inconfutabile.
Sì, mio caro papà, purtroppo, col
passare degli anni, sempre più ho dovuto fare i conti col “punto di vista” che
ai tempi del nostro stare insieme ignoravo. Probabilmente non ero abbastanza
matura per afferrarlo anche nei vostri discorsi di adulti, quando in casa
venivano i tuoi contadini oppure venivano a farvi visita amici e parenti. Nei
giorni feriali erano i tuoi aiutanti, nei giorni festivi amici e parenti. La
visita di questi ultimi era un rito. Era assente un silenzio lungo tra di voi.
La domenica era dedicata alle “visite”. Io e Lizia ci annoiavamo. I discorsi di
voi anziani ci annoiavano. Io, ghiotta com’ero, mi sottoponevo a quel supplizio
un po’ perché era impensabile dire “non vogliamo venire con voi” e un po’
perché sapevo che prima o poi la padrona di casa avrebbe tirato fuori dei
dolcetti fatti con le proprie mani o, ma questo più tardi nel tempo, le paste
alla crema comprate al bar, con il rosolio versato in bicchierini quanto un
ditale, deliziosi a vedersi, ma con scarso liquore da gustare. Erano tempi
frugali come regola di vita. Io non vedevo l’ora di mangiare quelle delizie,
che mi distraevano dall’ascoltare in religioso silenzio, statue di gesso, “i
discorsi dei grandi”. Ebbene, in quei discorsi qualche volta o quasi sempre i “grandi”
discutevano, ma io non ero in grado di afferrare lucidamente i diversi punti di
vista soprattutto per disattenzione, ma anche per disinteresse verso i temi
delle vostre discussioni: il raccolto, l’urgenza della pioggia per dissetare i
campi a favore di piante e germogli e frutti, il prezzo dell’uva, delle olive,
dell’olio, la giornata dei contadini… roba di questo genere, che di solito
lasciava tutti concordi e allineati, ma non sempre. Ed ecco i vari punti di
vista, che mi lasciavano del tutto indifferente e con la voglia di scappare,
soprattutto dopo la ormai sguarnita guantiera dei dolci.
Diversa era l’atmosfera che si creava
quando, invece, si parlava di politica tra gli uomini. Le donne non
c’entravano. Allora sì che i vari punti di vista scazzottavano tra loro.
Soprattutto se nel gruppo c’erano democristiani e comunisti. Per esempio,
Pasquale, tuo nipote, assessore della DC, e zio Michele, tuo cognato, fratello
di nonna Angelina, sfegatato sostenitore del PC. Sfuriate di pareri
discordanti. Ma anche qui noi piccole o appena ragazzine eravamo del tutto
estranee a quei fendenti, lanciati da una parte e dall’altra con assoluta
maestria in un garbuglio di affermazioni e di dissensi, di malintesi e
chiarimenti, dove tutti rimanevano della propria opinione senza lasciarsi
scalfire minimamente dalle spiegazioni degli altri. Il giornale radio dava la
stura al solito dibattito e alle solite proteste animate e ingarbugliate. Io e
Lizia scappavamo fuori nel cortile per riprenderci i nostri pensieri che si
facevano più chiari al chiarore della luna o alla luce certa delle stelle in
gara con i rami carichi di foglie e di frutti del gelso rosso, attenta
sentinella della nostra casa.
Neppure i discorsi femminili ci
piacevano. Era tutto un parlare di reumatismi, dolori, acciacchi vari e dei
vari rimedi naturali (l’aglio strofinato sui geloni, l’infuso di menta per far
passare il mal di pancia, gli impacchi di semi di lino per la “costipazione”…);
oppure di cucina, delle varie ricette (u
ragù du vəccìrə, u bəccònə du rèjə…)
e dei condimenti raccolti nell’orto (la salvia, la mentuccia, il prezzemolo, la
cipolla, l’aglio, i pomodori); e finivano col parlare sempre, come un
ritornello mai dimenticato, dei giovani senza Dio, le ragazze sfacciate e i ragazzi
scansafatiche e senza responsabilità e sistematicamente concludevano con occhi
cupi e bocche serrate di fremente sdegno se non disprezzo: “Jndə a cè munnə sìmə sciùtə a fərnèscə!”
(in che mondo siamo precipitate!).
Noi ce la davamo a gambe levate. Anche
i loro discorsi ci annoiavano. Nostro rifugio era il portone, dove facevamo
cerchio intorno al pozzo con i nostri coetanei per cominciare a scoprire il
mistero della parola “amore”, che mai si disvelava nella sua realtà, ma tutto
si colorava di fantasiose supposizioni. In quel cicaleccio, però, dimenticavamo
innocui alterchi e dannose lamentele, giornale-radio e pettegolezzi di piccolo
cabotaggio che non andavano oltre i muri del cortile e della nostra casa.
Tutto, comunque, contribuiva a darci nuove dimensioni della vita: la misura,
esatta o sbagliata che fosse, dell’amicizia e dell’amore. La giusta distanza
fisica e psicologica per sentire l’assenza e la lontananza (Domenico Modugno
cantava con accorata nostalgia “La lontananza sai è come il vento…”) o per
sentire una vicinanza gradita oppure opprimente, il senso dell’appartenenza o del
possesso, della improbabile libertà. E mi viene in mente la bellissima poesia
attribuita ad un grande poeta, Fernando Pessoa, intitolata “La leggenda
dell’onda e del mare”. Il senso di libertà vinto sempre, dopo aver preso il
largo, dal far ritorno ai sentimenti…
Un
giorno l’onda chiese al mare:
mi
“ami”?
E
il mare rispose:
“Il
mio amore è così forte
che
ogni volta che
t’allontani
verso terra
io
ti tiro indietro
per
riprenderti
tra
le mie braccia.
Senza
di te la mia vita
sarebbe
insignificante.
Sarei
un mare piatto, senza emozioni.
Ti
sei l’essenza del mio esistere”.
L’onda
fu felice
tra
le braccia del mare.
Facendo
finta, ogni volta di volare via,
per
dare quel senso di precarietà alle cose,
per
renderle più preziose.
E
ogni volta il mare
la
riprendeva, con le sue braccia
Grandi,
per riportarla a sé.
Raccontano
che una notte
la
luna illuminava il mondo,
e
l’onda bianca lentamente,
in
un ballo infinito,
scivolava
tra un prendersi e un lasciarsi,
col
mare che stendeva le braccia
per
poi ritirarle,
facendo
finta a volte di non poterlo fare,
perché
l’onda potesse assaporare
anch’essa
quella precarietà
che
rende le cose preziose.
L’onda
e il mare sono ancora lì,
nel
gioco infinito delle emozioni.
E
fanno finta che sarà l’ultima volta
che
l’onda partirà verso la terra,
per
non tornare più,
ma
poi, alla fine, è più forte su tutto
il
bisogno di riprendersi.
Nel
sogno di un amore senza fine.
Erano questi i nostri sogni. Le nostre
parole. I discorsi sul sesso erano proibiti e, quando sconfinavamo nei suoi
dintorni, era tutto un brulicare di “sentito dire” che mai ci chiarivano le
idee e men che mai corrispondevano a verità. Meglio fermarci a disquisire
sull’amore con dovizia di particolari del tutto inattendibili, ma che ci
aiutarono in qualche modo a crescere nella consapevolezza, via via sempre più
matura, di un sentimento che aveva bisogno di continue “revisioni” e
adattamenti a situazioni, persone, comportamenti. E che le illusioni non ci
aiutavano a crescere, ma ci aiutavano a vivere. La maturità è una viandante che
avanza lentamente sul sentiero del tempo tra poche rose e molte spine>. (III
vol. ancora inedito).
Ma del tempo, come già detto,
parleremo ancora. Buona domenica. Angela-Angelina-Lina
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