Ciò che nella vita rimane
non sono i beni materiali,
ma i ricordi dei momenti
che hai vissuto
e ti hanno fatto felice…
(Alda Merini)
E riprendo con i ricordi: 4 novembre 1918 entrava in vigore
l’armistizio che sancì la resa dell’impero austro-ungarico, ponendo fine alla
Prima Guerra mondiale, con l’annessione all’Italia delle “terre irredente”
Trento e Trieste. Ciò mi dà il pretesto di parlare della terza parte prevista,
dopo il Tempo e la Memoria, i Ricordi, partendo dai ricordi di mio nonno
Parte III: I Ricordi
Nei ricordi di mio nonno, ecco quella “verità” che gli aveva
attraversato la pelle e il sangue, trafitto il cuore ("ma nel cuore/
nessuna croce manca// È il mio cuore/ il paese più straziato" recita ora
il poeta per me). Ricordo il suo racconto, che celava, in un sorriso tenero e
pacato e nel vortice di un Cielo di neve di quel 1917, lo strazio per non aver
potuto afferrare i riccioli dorati delle sue bimbe falciate, in appena due
giorni, da una pertosse assassina.
Ma la cronaca di quei giorni ignorò del tutto il cuore
straziato di mio nonno. Ignorò il soldato che scappò sotto quella neve perché
era a due passi da casa e venne fucilato come disertore ed aveva solo diciotto
anni (uno dei tanti ragazzi del ’99, mandati a morire come capretti, sottratti
ai campi e alla casa, e del tutto ignari del significato stesso di Guerra, di
esercito, di nemico da ammazzare), e gli era rimasto negli occhi uno stupore
senza nome e senza preghiera. "Cosa ho fatto di male lungo il sentiero che
mi stava solo riportando a casa mia?", ebbe appena il tempo di dire
rivolto al Cielo che era tenero di piume e avaro di pietà.
Certo, sembravano fiabe quei racconti interminabili di mio
nonno, scampoli di verità di quei fatti lontani e ancora vivi nella sua anima
benché ascoltati da noi nipoti col lo stupore di bambini ignari della
cattiveria del mondo. Protetti dal cuore di nostro nonno, che ogni sera accendeva
solo per noi tutte le stelle perché potessimo imparare a sognare per superare
la paura e il disincanto, dato che prima o poi la vita ci avrebbe ingoiati nei
buchi neri delle sue contraddizioni e avremmo dovuto fare i conti con la
violenza, i lutti, il pianto...
E oggi sempre più spesso io mi rifugio in quelle sere sotto
le stelle per ricordare il suo raccontarci le verità vere, e forse solo a
tratti romanzate, dei giorni passati per riportarli a quelli presenti e futuri.
Sì, ora sempre più ho bisogno di quelle antiche certezze per ritrovarle ancora
intatte e non avere più paura del presente così devastante e del futuro così
precario e incerto per l'umanità intera. Devo partire da quelle lontane parole,
le uniche che avessero per noi profumo di verità...
Mia nonna sgranava gli occhi di bambina e s'accontentava di
ascoltare il suo uomo e di scoprire il piccolo mondo che palpitava di vita
appena fuori dalla sua casa. Lei sapeva accontentarsi. Era semplice e viveva di
cose semplici. Non sapeva leggere né scrivere, come la maggior parte delle
donne del suo tempo. Ebbe lunghi dolori di figli perduti alle sue braccia,
confidando nel buon Dio che donava e toglieva, secondo il suo “ricamo”, di cui
noi vedevamo solo il rovescio sotto la volta del Cielo (modo di dire usato da
San Pio da Pietrelcina), e lunghe risate a lenire quel dolore che nessun
cronista avrebbe mai raccontato o racconterebbe mai. Era un mondo semplice e
quasi piatto, il suo, che neppure un semplice e onesto cantastorie avrebbe mai
acceso dell'amore da lei vissuto in silenzio “del non detto”. Mio nonno sì,
aveva fatto palpitare e vivere quel loro mondo di sacrifici, silenziose
rinunce, quotidiana preghiera e lo aveva acceso di gioia e di memoria,
facendoci rivivere il loro passato e prevedere in qualche modo il nostro
futuro, che è solo il “passato capovolto” per chi lo sa inventare...
Ma i racconti di guerra alcune volte incupivano il suo volto
di una tristezza infinita: ci parlava anche del generale Cadorna che i soldati
avevano ribattezzato “carogna” per la sua rigida disciplina, per la fucilazione
di tanti soldati su cui gettava la colpa delle sue sconfitte. Ma poi, tornava a
scherzare come se quei ricordi fosse una nuvola nera a coprire solo per poco le
stelle… “e le stelle - diceva - erano più vere delle mie ‘minghionate’. Queste
spariscono, quelle restano”. Ma noi sapevamo che le sue parole erano più vere
delle stelle altrimenti il suo volto non ci avrebbe rivelato tanta tristezza.
Le parole dei vecchi, dunque, sono le sole parole vere di
cui possiamo fidarci? Le uniche in cui credere? Purtroppo, no. Non hanno filtri
i vecchi, né velleità di apparire. Vogliono solo consegnare ai nipoti la
tradizione ricevuta dai racconti dei loro nonni, forse per fermare il tempo,
prima che scappi via e li lasci deserti di memoria, svuotati di ricordi e di
parole perse nel tempo, di voci spente nella voce del vento.
Nelle loro parole, la rinnovata identità di noi stessi,
della nostra appartenenza, questo sì, ma contengono la “verità storica” dei
“fatti”? Purtroppo, no. Ora che sono vecchia anch’io posso testimoniarlo. Ma
ciascuno ha la sua verità. Che è sicuramente la propria verità, ma non può
essere assunta a “verità storica”. E ogni verità è frutto di personalità, di
passioni, sentimenti, emozioni. Esperienze pregresse. La stessa realtà ha
migliaia di volti e voci e parole e percezioni, incanti e disincanti diversi.
Ecco perché i ricordi non si fanno mai memoria collettiva. Confluiscono forse
nella grande Storia, ma spariscono senza lasciare traccia. La grande Storia è
appannaggio dei re, dei condottieri, dei grandi generali.
Significativa la poesia di Bertolt Brecht “Domande di un
lettore operaio”:
|
Giusto. Tante vicende, disseminate in senso diacronico e
sincronico sul nostro pianeta, e tante domande che, come Brecht (fortemente
impegnato a lottare con il suo Teatro e le sue poesie contro l’analfabetismo
dei sentimenti dei ricchi, sempre intenti a perpetrare e perpetuare soprusi
contro la povera gente spesso attanagliata solo da quell’analfabetismo
strumentale che ne decretava l’ignoranza e ne strangolava rivendicazioni e
libertà), avremmo dovuto o dovremmo porci, prima di accettare per vera la Verità
storica e la stessa memoria. Ma noi ci accontentiamo dei libri di storia, delle
lezioni dei cattedratici, dei saggi dei grandi studiosi, infiocchettati di
retorica, inneggianti il ritrovamento dei documenti, inoppugnabili sulla loro
veridicità, e dimentichiamo questi dubbi elementari, ma essenziali, che
potrebbero condurci per mano a riscoprire il senso profondo dell’arroganza del
sapere e quello più innocente della purezza dell’umiltà di chi scopre
quotidianamente di non sapere tanto è l’abisso, in cui sprofondano i suoi
perché, e consapevole della impossibilità di conoscere un solo
frammento dello scibile umano. Già, l’umiltà! Virtù praticata dai nostri nonni
e oggi completamente ignorata dai più, convinti di avere l’abracadabra per
aprire tutte le porte del sapere o di tirare fuori dal cilindro la carta
vincente, la colomba che vola, il coniglio impaurito che suscita sempre e
comunque meraviglia e battimani negli sprovveduti spettatori. Quanti “Io sono
il migliore, nessuno può essere meglio di me. Sono io la luce che rischiara le
tenebre degli altri!”. Sarebbe più giusto affidarsi alla velleità del dubbio
piuttosto che all’arroganza della conoscenza e ripercorrere lungo i viottoli
impolverati dei campi, un tempo rigogliosi e oggi dimenticati, i canti di uomini
e donne abituati alla frugalità delle parole e dei sentimenti non urlati, ma
mai dimentichi di innalzare un inno di Gloria per il Creatore e tutte le sue
creature. Grati sempre al buon Dio del dono della semplicità e della vita. Dono
dell'“indefinito” smarginato e insieme angusto mondo del luogo di nascita, a
cui ci legano i ricordi, spesso nebulosi perché lontani nel tempo e visti con
occhi nuovi, dell’infanzia, adolescenza e prima giovinezza; e dono del
leopardiano “infinito” che ci attende oltre la “siepe” (“Che tanta parte
dell’ultimo orizzonte/ il guardo esclude./ Ma sedendo e mirando,/
interminabili spazi di là da quella,/ e sovrumani silenzi, e profondissima
quiete/ io nel pensier mi fingo;/ ove per poco/ il cor non si spaura…). Ma
è proprio il silenzio a far emergere nella nostra anima le tante voci mai del
tutto dimenticate. Ed è così che, di generazione in generazione, sopravvivono
le voci legate ai ricordi e, con i ricordi, le parole ascoltate, i valori
appresi soprattutto con l'esempio di chi si prendeva cura di noi, fino a che la
ribellione dei nuovi nati non è andata a sradicare la tradizione per proporre
altri ideali, nuove idee, insoliti comportamenti e pensieri. Nel tentativo di
rinnovare la società. L’errore dei giovani, però, è sempre in agguato, data la
loro inesperienza: purtroppo azzerano il passato trovandolo obsoleto, non
tenendo conto del prezioso dono della saggezza antica che va conservata nei
suoi valori di sempre e rinnovata in tutto ciò che è necessario cambiare per
naturale evoluzione e inevitabile trasformazione.
In realtà, tutto cambia e tutto si ripropone. Basta
conservare memoria del passato, riproponendolo con tutte le modifiche e
correzioni dovute al tempo presente in funzione di quello futuro.
Il passato: una brutta copia sgualcita, rimessa a nuovo non
più con carta e penna e inchiostro, né con la macchina da scrivere Olivetti
lettera 32 di mia felice memoria, ma con tablet, computer, cellulare di
ultimissima generazione per rincorrere il tempo che non dà tregua, proiettato
come un’astronave spaziale verso nuovi orizzonti e nuovi cieli.
Di qui la “nostalgia del futuro”, ossia dell’ansia di
rinascita continua nella riproposizione di nuovi domani. Con solidi e mai del
tutto scompaginati ancoraggi al passato. Per riconoscerci, riscoprirci,
ritrovarci in un tempo che non è più il nostro tempo eppure tutti ci contiene
nella sua eternità.
E mi piace concludere con una pagina del secondo volume del
mio ultimo romanzo, Le piogge e ciliegi, (SECOP edizioni -
Corato/Bari) dedicato appunto a mio nonno, leggendario e concreto eroe della
mia vita.
<… Per riconoscerci, dunque, è necessario scoprirsi,
accendere i fari sui ritrovati ricordi perché si facciano memoria di noi e
degli altri, individuale e universale, in un andare a ritroso in quella
galleria personale, dove spazio e tempo si azzerano per sconfinare in un
“luogo” che ci spaurisce perché cela il mistero di noi e lo attualizza con
spietata crudeltà. I fari illuminano quanto avevamo a fatica dimenticato,
quanto ci eravamo illusi di azzerare, quanto ci era sembrato giusto soffocare
nelle spire della “camera oscura”, dove si aggirano le nostre ombre. Quelle del
passato e quelle del presente, in una confusa sarabanda di tempi luoghi azioni
situazioni.
Soprattutto
le ombre
(analizzate
a fondo da Carl Gustav Jung),
che avevano reso buio il nostro cielo, condizionato
comportamenti nel nostro personale naufragio, in uno scrosciare di pianto da
non dire. Occorre imparare a convivere con le nostre ombre se vogliamo salvarci
dai sensi di colpa e dai rimorsi. E le lacrime non devono fare rumore se
vogliamo essere accettati dagli altri. Se vogliamo accettarci. Per questo le
ascoltiamo di notte. Le accogliamo e soffochiamo nel cuscino. Eppure sarebbe
bello scoppiare in lacrime di fronte al mondo e dire ecco la mia fragilità,
ecco il mio coraggio
(“e quanto è bello chiagnere”, dirà Filumena
Marturano dopo una vita di lacrime ingoiate e occhi di ostinato silenzio).
E oggi sono convinta che si può scrivere con autenticità
solo delle esperienze vissute in prima persona. Ed essere credibili. Altrimenti
è solo una costruzione logica o fantastica, ma priva di verità. Ed è
quest’ultima che rende universale la nostra storia privata. Soprattutto quando
fa male perché ognuno può ritrovare sé stesso in quella ferita. In quel pianto.
Tutto il resto è letteratura per mentire e mentirsi. Divertendosi e divertendo
anche. Indicando mondi irreali perché si imparino gli sconfinati spazi della
creatività, della fantasia e della immaginazione. E sono stata e sono la prima
ad inchinarmi alla grandezza immaginifica dell’uomo. Ma sconfiniamo anche dalla
realtà. Che è tanto più vera quanto più ci appartiene e appartiene alla gente
che si dibatte in mille contraddizioni e si riconosce nelle qualità e nei
limiti, nelle conquiste e negli errori, nell’ideale di quello che vorrebbe
essere, e nel reale di ciò che è. E i ricordi servono anche a questo. A darci
la nostra giusta dimensione nel tempo e nello spazio.
Nella
nostra anima che non conosce confini
Ci sono, però, ricordi luminosi che non abbiamo mai
dimenticato, che mettono in fuga le nostre ombre e ci aiutano a riafferrare il
senso della vita con maggiore gioia di vivere. Soprattutto quando gli anni sono
tanti. E ci sorprende come ladro di sogni il disincanto.
È bene, allora, farci illuminare e riscaldare dalla
tenerezza di quei ricordi, se vogliamo rinascere e non solo sopravvivere a noi
stessi:
volti
voci richiami
per mettere in fuga la pioggia che batte con piede cattivo
sui nostri pensieri e fare spazio all’arcobaleno che ogni scrosciare d’acque
porta con sé.
E
ogni notte si fa Alba Mattino Tramonto Sera
Poi, si ricomincia. In una scia di luci-ombre-luci… senza
fine… (…)
Nella consapevolezza di un tempo che non può tornare, ma
può far sentire nel profondo del cuore la necessità di recuperare quanto di
buono abbiamo dimenticato per farne nuovo seme per nuovi domani. Con nuovi
mezzi nuove modalità nuovi passi nuove strade nuovi volti nuove
voci
su
antichi richiami.
Ogni domani è il passato capovolto come il cielo in una
pozzanghera. Come chiome d’alberi che hanno radici. Come occhi di bimbo
ancorati agli occhi della sua mamma. E i domani si sognano prima di
realizzarli.
E il sogno non vive e si alimenta nel fondo più profondo
della nostra anima?
La
Nostalgia è Sogno che viene da lontano e va lontano
È Ricordo che si specchia nel
Futuro. Memoria della nostra Umanità!
È Tenerezza che Accoglie Protegge Ama>.
E oggi si conclude il trittico del Tempo, la Memoria, i
Ricordi. E vale la pena di dare un abbraccio di cuore al compianto amico di una
vita, Franco Brancale, che oggi avrebbe compiuto 83 anni, e a tutta la sua
bellissima famiglia, capitanata dalla volitiva e coraggiosa mia amica Gianna
Sammati, i figli Mariangela e Carlo, con i loro figlioli. A tutti loro mi lega
un grande affetto, consolidatosi in tutti questi anni. A loro oggi e a tutti
voi, che mi seguite con amore, sono dedicate alcune mie poesie, che sanno di
presente, acquerellato di tenerissimi o struggenti ricordi.
Malinconia d’autunno
Arance castagne melograni
in forma di foglie danzano
volano sognano girandolano
con lento vortice di vento
al pulviscolo dorato
del frammentato sole di novembre
Lacrima mestizia
agli occhi della siepe ingiallita
un autunno
che ha sapore di ricordi
e si perde nelle brume mattutine
ancora calde di progetti residui
Sorpresa e pentimento
ignorare nelle mie stanze di fatica
questo cielo ancora terso
corrucciato stanco rossastro
ma inviolato ancora
da nuvole e piogge e albe di brina
che s’affacceranno ai freddi cieli
d’inverno dopo tanta arsura
e un grondare di sogni feriti
nel grigiore
di uno spleen simile al pianto
(anche noi si sta
in attesa pavida dell’ultima stagione)
Accartocciata foglia
Accartocciata foglia d’anni
è il mio autunno d’antica allegria.
Bimba del mio tempo breve
ridammi
il tuo filo d'aquiloni al vento,
dove legare risposte mai ricevute
ai perché del mare e del firmamento,
e un ditale d’argento e d’oro fino
per ogni ago che mi ferì nell’andare.
Cantami una ninnananna
stammi vicino.
Oggi ho bisogno anch’io di una culla
che mi salvi dal tempo e dal dolore,
che serena mi faccia addormentare
tra stanche foglie
del mio quieto giardino,
dove è più facile riprendere a sognare.
Raccontami
della fiaba che non muore
e ogni notte di lucciole esplode
nel mio cuore di papaveri e gelsomini.
(di stelle s'illuminava il tuo prato cuscino)
Cielo grigio di novembre
Cielo grigio sui rami di novembre
tormentati dal vento
e una pioggia di solitudine mi assale
- la solitudine si deve fuggire
si deve fuggire,
sol con le compagne
si può gioire,
sol con le compagne
si può gioire…
Cerco una bimba
che sappia cantare
che sappia cantare.
Cerco una bimba
che sappia danzar… -
Mi torna in cuore
l’antico canto di noi
bambine
a vincere solitudine
e malinconia.
A far vincere ingenuità
e allegria.
E comincio a
cantare piano
mentre danzo
danzo danzo
sul verde prato
assolato
che “nel pensier mi fingo” …
(e
sono salva!)
Un abbraccio a tutti! Angela-Angelina-Lina
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