Parte II: La Memoria
i nostri cari defunti, annidati nell'anima e sempre presenti
ai nostri giorni, mi permettono di parlare del secondo punto delle mie
riflessioni: la MEMORIA.
La memoria è un faro che accende di luce il nostro passato:
resterebbe buio e indistinto se non conservassimo a tratti squarci di visioni
antiche che si nutrono di voci, immagini, suoni, odori, sapori, emozioni,
parole… illuminando anche il presente: dalla invisibilità alla visibilità degli
oggetti e delle decisioni riguardanti quegli “oggetti”, dalla indecidibilità
alla decidibilità delle situazioni, dall’inaspettato prodigio o disastro
all’attesa o alla scongiura dell’accadimento, dalla impalpabilità dei sentimenti
alla palpabilità del cuore.
Ecco perché memoria è “tutto ciò che si deve ricordare ma
soprattutto quello che non si può dimenticare”, tanto è inciso nella mente e
nell’anima.
Segno e senso del nostro brevissimo passaggio esistenziale
su questa terra.
Guai se quel faro si spegnesse, saremmo tutti naufraghi alla
deriva, senza più contezza di noi, del tempo, dei giorni, delle ore; del mare e
del suo splendore, delle notti rischiarate dalla luna o ricamate dalle stelle;
dei nostri amori e dei nostri rancori, dei sogni e dei desideri; dei passi
d’erba e delle orme cancellate sulla sabbia del tempo che dimentica. Del vuoto
della mente e del deserto del cuore. Della gioia e del dolore. Dei rimpianti e
delle speranze. Dell’attimo in cui ci colse l’emozione di uno sguardo
perdutamente innamorato, da non perdere negli anni a venire o da cancellare nel
breve spazio di una notte SENZA stelle. Se mancano le stelle il buio ci avvolge
e cancella il coraggio di osare, di andare oltre per ritrovarle. Niente di più
disumano del perdere la memoria e con essa identità e dignità. Chi restituirà
al malato di Alzheimer la memoria dei giorni vissuti, degli affetti radicati
nel cuore e smarriti nelle tenebre del non ricordare? E non sapere più di
essere madre/padre, figlia/figlio, moglie/marito? Non ESSERE perché essere
SENZA. Disperazione, al loro fianco, di quanti sanno e ricordano. Senza attesa.
Senza speranza. Senza storia. SENZA. Un senza che apre un baratro, un abisso,
il nulla.
La memoria, invece, è una pagina piena di ricordi che la
mente traduce in parole per definire una storia al passato. È pienezza, non
mancanza. È, paradossalmente, presenza, non assenza. Quanto importante la
narrazione, quel filo luminoso che si accende di mille colori per portare il
passato, anche remoto e remotissimo, al presente. Un resistentissimo nodo
gordiano che unisce le passate generazioni alle presenti perché si rinsaldino
vincoli di sangue o di profonde intese. Gli antenati che si vestono ai nostri
occhi di tanti “forse”… e di innumerevoli “se”, che neppure i libri di storia
antica riescono a dissipare, si affacciano sui balconi del presente per donarci
dubbi ben più pensierosi e consistenti per il futuro…
La memoria di cui parlo, infatti, non si veste del fragile
tessuto della nostalgia o non si curva sulle linee esauste di un corpo
ripiegato e sconfitto, né si rifugia nei secchielli colmi di mare
dell’infanzia, magica e dorata, nei riccioli al vento degli aquiloni che mai
più saranno, ma si fonda sul presente e sul futuro perché riscopre in ogni
passato il Valore irrinunciabile della sacralità della vita in tutte le
sue innumerevoli foglie, che rinascono ad ogni attesa primavera. In ogni
stagione vissuta. Da vivere.
E, oggi, è un Valore, che colma l’attuale disagio del
“pensiero debole” (Vattimo-Rovatti) per farsi, nel terzo millennio, fra
migliaia di terribili marosi di un presente alla deriva, nuova “forza” e
“pienezza”, per irradiare, nella nostra società planetaria, nuovi stati di
coscienza individuali nel loro farsi “consapevolezza collettiva” in una sorta
di “correlazione universale” (come ci ha suggerito la compianta Silvana
Folliero nel sostenerci a realizzare il Sogno/Progetto di aprire una “Casa
editrice altra” circa vent’anni fa), attraverso un rinnovato “pensiero forte”,
titano della comunicazione anche virtuale e della conoscenza scientifica e
tecnologica del mondo. “Scienza e Coscienza”, dunque, sempre più si dilatano
fino a comprendere la “coscienza delle cose” e la “fiducia nella tecnologia e
nella comunicazione digitale”, che diventa, utopisticamente forse, fiducia in
possibili coinvolgimenti di tutti e di ciascuno per realizzare una umanità
migliore. Una umanità, che dovrebbe fare della solidarietà e della speranza i
suoi punti di forza; dell’intelligenza e della comunicazione di massa i solidi
ponti di “interesistenza” tra gli uomini, perché la memoria si faccia
possibilità di “rinascita” e di “rigenerazione” (vedi il Protonismo di Gjeke
Marinaj).
Ma potrebbe accadere il contrario e sarebbe la distruzione
della intera umanità.
Una possibilità che non voglio neppure prendere in
considerazione perché ho fiducia nella coscienza dell’uomo, che saprà fare
tesoro della scienza e della fede (coscienza), come è sempre accaduto nella
storia dell’umanità, altrimenti ci saremmo già estinti da lungo tempo.
Ritengo, però, che la storia non sia “magistra vitae”
(Cicerone) perché ancora oggi vale per l’uomo contemporaneo il grido di dolore
di Salvatore Quasimodo: “Sei ancora quello della pietra e della fionda,/ uomo
del mio tempo…”. Pure, nonostante la sua natura immutabile, l’uomo ha risorse
di mente e di cuore per scongiurare di volta in volta, nei millenni, la sua
autodistruzione.
La memoria, allora, si fa attimo di ogni presente che vive
il possente fulgore dei guizzi di conoscenza del passato e si affaccia al
futuro. Nel passato, i germogli del presente, e degli scenari che si potrebbero
configurare lungo i passi che il tempo concede ai nostri domani. Ci saranno
sempre nuovi viandanti a proseguire il viaggio lungo i sentieri ritrovati della
nostra storia oppure cercati e scoperti o, ancora, via via tracciati perché si
facciano storia.
La memoria è, dunque, paniere di tutti i fiori e i frutti,
vitali e propulsivi, dell’umana esperienza, individuale e universale.
La memoria è anche, o forse soprattutto, forza catartica,
invincibile emozione, profondo sentimento. Chiaroveggenza e Speranza. Epopea di
epiche risonanze di terre e di universi.
Scultura di Volti di uomini incisi nelle pietre che
raccontano innumerevoli storie che, come fiumi aventi sorgenti lontane, si
riversano insieme, dopo lunghi viaggi individuali, nel grande oceano della
Storia universale.
Di solito, queste innumerevoli storie non ambiscono a
ritrovarsi nella grande Storia, si accontentano di poco: fare, per esempio,
tenera compagnia alle persone anziane che vivono di ricordi più che di
progetti.
E, del resto, la storia non è mai come viene raccontata, ma
come viene vissuta; si ha persino paura di dover fare i conti con una storia
dell'umanità mai vera e sempre inventata dal cronista di turno o dal saggista
di parte (per ideologia politica o partitica, per formazione culturale, per
convinzioni personali…) e dall’archivista che la ricostruisce con pazienza
certosina, mai realmente libero di approdare alla “verità storica”, eterna
utopia.
Dove la “verità storica”, allora? La storia è o non è
fondata sulla memoria? Ma la memoria, come già osservato, non sempre racconta
la verità. E, dunque? Quando si può parlare di “verità storica”? Quando si
va a cercarla nei racconti dei nonni o quando ci affidiamo a documenti più
concreti e oggettivi come graffiti nelle grotte millenarie dei nostri
progenitori, scavi e reperti di una certa era storica, monete antiche,
iscrizioni, epigrafi, stele funerarie e monumenti che resistono al tempo o le
loro stesse rovine? Cercare costantemente eventi con effetto “domino” di cause
e conseguenze e sentirsi autorizzati ad avere certezze sui comportamenti umani
che sortiscono sempre gli stessi effetti, se motivati dalle stesse cause, sia
pure in tempi e luoghi diversi, oppure nutrirsi di dubbi sulle interpretazioni
perlopiù soggettive di eventi raccontati in maniera del tutto arbitraria e
spesso con opposte testimonianze e dichiarazioni sui vari accadimenti?
Forse sarebbe opportuno, come sosteneva Benedetto Croce,
rifarsi alle fonti dirette e indirette degli accadimenti storici, evitando ogni
coinvolgimento emotivo in riferimento all’“oggetto studiato” per consegnarlo al
lettore come pura “conoscenza dei fatti”, ma questo metodo non mi convince
molto. Non amo la cronaca triste ed essenziale della “conoscenza dei fatti” che
ne fanno i cronisti sulle pagine di un Quotidiano locale o nazionale, oppure
gli studiosi nei loro libri di storia. Ciò vale soprattutto per la
cronaca quotidiana di altri periodi storici alle prese con varie emergenze per
la salute e per il pericolo di decimazione dell'umanità: la peste, la lebbra,
la spagnola, la malaria, l'asiatica, la terribile SARS, diffusasi nel 2002,
quindi nel XXI secolo, dalla Cina e definita già coronavirus, con le stesse
caratteristiche di sofferenza polmonare a chiudere alveoli e cuore, ormai
disperatamente note, del Covid 19.
La stessa aridità è riscontrabile anche cercando notizie di
guerra, altro flagello per il genere umano. La Prima e la
Seconda guerra mondiale, per esempio. Per delimitare la ricerca al "secolo
breve" eppure “lungo” di lutti e di dolore, e arrossato dal sangue di
tutte le altre guerre devastanti nei vasti territori del pianeta Terra. Tutte
le cronache sono uguali. Narrano i fatti. Che sembrano veri, tanto sono
dettagliati con luoghi, vittime, circostanze, indici statistici. Fatti non
fanfaluche...
Tutto sembra chiaro e inoppugnabile. Eppure, in quegli
articoli così bene articolati, non è difficile rilevare l'assenza della paura,
l’ansia dell’attesa, il tremore per il nemico ad “un tiro di schioppo”, o la
mancanza di qualsiasi altro sentimento negativo o positivo che sia.
Quando a scuola studiammo la storia della Grande
Guerra non rilevammo, al di là dei fatti narrati con asettica precisione, la
tentazione di una fuga, il fremito di una lacrima, la commozione di un
incontro, il sollievo per lo scampato pericolo, lo strazio di sapersi vivo
mentre una granata squarciava il cuore del compagno appena a un palmo dai
pantaloni alla zuava del soldato in trincea; non il canto nostalgico di chi
guardava le stelle e si accendeva una sigaretta per abitudine, subito spenta
per precauzione col nemico appena a pochi passi oltre la trincea, e pensava
alla sua ragazza lontana "ohi vita ohi vita mia". E i partigiani e la
Resistenza "oh bella ciao, bella ciao, bella ciao". E il Vietnam con
il canto amaro e nostalgico di Gianni Morandi "c'era un ragazzo che come
me" e giù lacrime di solitudine e di commozione.
Solo numeri, dati, statistiche in quell'apparente verità
obbiettiva dei fatti narrati. Senza fremiti, lacrime, sorrisi. Senza. Anche qui
il “SENZA” mi spaventa.
Io ho fatto sempre tesoro dei racconti di Guerra di mio
nonno: nelle sue parole senza lacrime, ma evocative e sicure, c’era la verità
da me sempre cercata invano nei libri di storia, nelle lezioni dei proff. di
Storia e Filosofia.
L’unica verità possibile era racchiusa nei suoi racconti che
avevano per noi sapore di fiabe antiche per non turbare la festa innocente dei
nostri giorni ignari di violenze e lutti e dolore. Mio nonno antesignano di
Roberto Benigni nel suo film “La vita è bella”.
Sì, per fortuna, la memoria viene rigenerata
continuamente dai ricordi, che fanno parte della storia individuale e riportano
al cuore (ri-corda-re) storie vissute in prima persona nel passato.
E la memoria, come mamma amorevole, nutre i ricordi quasi
fossero suoi bambini, a cui ogni sera racconta fiabe, cominciando con quel
“c’era una volta” che indicava un tempo indeterminato perduto nella notte dei
tempi o nel bosco della dimenticanza. Ma, in reciprocità amorosa, anche i
piccoli, i ricordi appunto, offrono alla mamma, sempre più smemorata con gli
anni che passano in fretta, il loro sollecito aiuto, sostenendola nel far
rifiorire, nel tempo, le tante storie da rivivere perché non muoiano mai del
tutto. E storie raccontano le mie poesie…
E
sei
E ricordati io ci
sarò.
Ci sarò su
nell’aria.
Allora ogni tanto,
se mi vuoi parlare,
mettiti da parte,
chiudi gli occhi e cercami.
Ci si parla.
Ma non nel linguaggio delle parole.
Nel silenzio.
(Tiziano Terzani)
Nelle rose che il giardino nasconde
geloso agli occhi dei passanti
Nei petali che si sfogliano
sul tavolo insanguinandolo d’amore
Nel gelso rosso che volli a ricordo
Nei vasi spogli del terrazzo sfiorito
Nello scrigno dei segreti e dei sospiri
Nell’oro delle fedi abbandonate
Nella sedia vuota e nelle canzoni
Nel senso e nel nonsenso quotidiano
che mi riporta a ieri o forse a domani
“Sei nell’anima
e lì ti lascio per sempre”
Sei…
in tutto ciò che non si può negare
(si dissolve agli occhi
con trame di tenerezza
una fotografia di memorie
nei chiaroscuri della nostalgia)
Ma mi piace riportare qui la poesia del mio amico Luigi
Lafranceschina, che ama come me la tradizione del dolce dei morti, la “Colva”.
La mangeremo stasera con i nostri cari, vivi come non mai nel nostro cuore.
<Oggi, 2 novembre, è il giorno della commemorazione dei
defunti comunemente detto giorno dei morti, ma è anche il giorno della COLVA,
il dolce tradizionale della Puglia che risale addirittura alla Magna Grecia e
che va ormai scomparendo insieme al mondo contadino e al dialetto. Considerato
il dolce del giorno dei morti, in realtà esso è un inno alla vita essendo il
grano simbolo della vita e la melagrana e la noce simboli di fecodità e di
fertilità.
IL DOLCE DEL GIORNO DEI MORTI
Il due novembre di ogni anno
Giorno del grano dei morti
Il profumo della colva
Piacere e gusto della vita
Esorcizza la morte
In agguato dietro la porta.
Il dolce dei nostri padri
Una macedonia di simboli e di frutti
Grano cotto a ricordo dei defunti
Amalgamato con maestria
In un piatto fondo di coccio
Con uva bianca la loro anima
Chicchi di melagrana i loro occhi
Gherigli di noci le loro ossa
Vin cotto di fichi il loro sangue
Scaglie di cioccolato la loro vita
Spesa bene nel lavoro e negli affetti.
A sera la festa della colva
Presenti amici e parenti
Che impazienti di gustarla
Tutti con l’acquolina in bocca.
Ma prima l’Eterno Riposo
Alle anime del Purgatorio
Poi via libera alle tazze ricolme
Goduria sulla soglia del palato.
E con gli elogi a voce alta alla colva
Anche quest’anno cala il sipario
Sul dolce del giorno dei morti!>
(Luigi Lafranceschina)
Anche oggi mi fermo qui. E già parliamo dei “ricordi”, parte terza delle mie riflessioni di questi giorni. Grazie perché condividete con tanto affetto le mie parole…
Quando ho incominciato questa lettura, mia cara Angela, non immaginavo di trovarmi di fronte ad una lectio universitaria di livello, in cui si coglie alla perfezione l'importanza della memoria e dei ricordi, belli o brutti che siano. La storia della nostra vita si riempie delle cose importanti che ci restano dentro, e altre effimere che finiscono nel dimenticatoio. Coltivare le prime è salvezza e sicurezza di vivere, non di vegetare.
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