Riprendo a scrivere con una storia d’amore, di cui abbiamo tutti disperatamente bisogno in tempi bui di orrore e morte che ci trafiggono l’anima. Ma non è una storia a lieto fine. Questo tempo così disperato non me lo permette. Ma questa storia rimane intatta anche se da me scritta più di cinquant’anni fa. L’amore rimane eterno. E la scrittura ha il pregio di rendere eterne le storie e le parole inventate per dare corpo reale a quelle storie. Buona lettura!
(Lettera ad un ragazzo che sapeva ridere e piangere e dirle
all’infinito “ti amo” con gli infiniti modi della sua fantasia; darle capriole
d’azzurro ad ogni fuoco d’artificio che lei gli scopriva tra le dita a
scostarle capelli dalla fronte e nuvole dal cuore)
Ragazzo mio, dimenticato e tradito per un nuovo amore-non
amore, per cui non valeva certamente la pena di lottare e tanto, torno da te
dopo anni di silenzio, insolito tra noi, soliti a raccontarci pensieri emozioni
sentimenti con parole diverse, caleidoscopici silenzi, scoppi di risate e
sentirci a fior di pelle (“epidermicamente”, come io dicevo). Perdonami se mi
sono allontanata da te, scivolando lentamente verso il baratro di un uomo più
saggio, più maturo, più forte, ma quanto più vecchio e senza sogni, senza vita.
Pure, ho creduto di amarlo. Con la stupida testarda assurda insistenza che solo
l’amore, nella convinzione di amare, può dare. Ho inseguito quest’uomo lungo
tutti i labirinti del suo cuore. Senza certezze senza verità. Senza un solo
filo di luce a farmi ritrovare la porta d’uscita o d’ingresso. A ritrovare una
sola porta spalancata sul cielo. Al buio ho percorso strade a senso unico
(senza senso). Al buio sono scesa nell’abisso del non sentimento a cercarmi
intatta e a ritrovarmi viva. Invano. Invano in lui ho inseguito spiragli di
giovinezza, dimenticata ormai da qualche parte. Ma i vecchi e i saggi non sanno
più essere giovani perché non sanno più sognare, né inventare attimi d’amore da
inseguire. I loro domani hanno odore di già vissuto e, quindi, di morte. Chi è
saggio è immobile nella sua perfezione. E non sarà mai più un fuoco d’artificio
ad oscurare le stelle. Non sarà mai più un attimo di luce a rendere immenso il
cielo. Giorno dopo giorno, mi sono lasciata imprigionare dalle sue arterie
sclerotizzate come tentacoli a soffocarmi. Mi sono lasciata percuotere
selvaggiamente l’anima dalla forza della sua ostinazione scambiata per virtù.
Sai, amore mio, ho creduto d’amarlo a tal punto da farmi continuamente svilire
calpestare distruggere, senza avere un solo soffio di “no” da opporre alla sua
crudeltà. E ogni volta ferite ferite ferite e la voglia di scappare sparire
morire. La voglia di dire “no, basta, basta non sopporto più. Non è giusto. No,
basta”. Soffocata in un pianto soffocato dietro gli occhi grandi asciutti. La
faccia impietrita con un sorriso disegnato a fior di labbra e un “mi telefoni
stasera?” a riportarmi tra le braccia angoli di sogni perduti chissà come,
chissà dove, chissà perché. Briciole di dignità perduta, chissà come, chissà
dove, chissà perché …
Poi mi ha ripreso la voglia di te, annidato da sempre nel
mio cuore come il gabbiano che mi vola dentro. Tu ed io così simili da avere
rose e spine nel petto. Così simili da non sopportare la profondità del nostro
amore. Da non sopportarne l’inevitabile dolore. Sono scappata dalla sua
distanza. Sono scappata dalla sua assenza. Sono scappata anche da me stessa,
legata alla sua distanza e alla sua assenza. Sono scappata per ritrovare te e
per ritrovare me stessa in te. Per ritrovare i nostri voli. I nostri sogni.
Ricordi cosa mi scrivevi prima dell’addio? Ho qui le tue lettere. Le bacio ad
una ad una.
29 maggio,notte
Ripenso ancora al filo che dall’anello si allungava man mano
che andavi via col treno.
Il filo sottile-traccia-rotta di volo su picchi andini,
prima di ripiombare giù a zappare la terra e frantumarmi la schiena sotto i
soliti doveri.
Ma ho ancora qui l’alone, il chiarore luminescente di ieri.
Mi rivedo con te alto 300 metri nella stazione a dominare
persone e cose di quel cerchio d’orizzonte e subito dopo formichina, per mano,
con te, a camminare lungo-tra le rotaie verso-in-un’infinita lontana distesa.
Malinconia lievissima mista a trepida dolcezza struggente. Sai-bimba-fata-mi
stai fissando dentro, con perni e chiodi e cemento, serenità. Mi hai depositato
una platessa sorridente
-SORRIDENTE-
E adesso ti cerco le labbra - le labbra LE LABBRA
E non voglio più discorsi convenzionali ospiti da soddisfare
difese da sciogliere.
Mi piaci guscio-carrozza su cui salire in cui raccoglierci -
a gambe incrociate -abbracciati a ridere di tutto e niente ma anche guardarci
in telepatica corrispondenza.
100 lampade da scegliere, 1000 TV da vedere ancora e poi, ma
questa è roba mia, ed è così che ti saluto, verso la mia fantasia - A destra …
Se non suona banale … Ti amo?!Sì Sì!Ma adesso sei qui. Punto.
Giovedì 24,15
E mi rimane la voglia di toccarti, di vederti …
Dopo la solita giornata di impegno, dopo dopo il piombo acido-gommoso che hai
adagiato alle pareti dello stomaco, ieri. Non mi bastava il mare da
capovolgere, da sbriciolare. Tanta pena dentro e vuoto, immenso, poi il piombo,
oggi ora.
Ti sento ti sento
adesso e allora che mormori e gridi a me, a te, alla vita. Ho dolore. Ma tanta
tanta sicurezza che sei qui, ridotta nel mio pugno e gigantesca, straordinaria.
È bello parlare con te, è facile, semplice. Conosci i guizzi
e le agitazioni e i tormenti. Conosco la traccia amara del tuo volto. Sono io
che ti chiedo di starmi vicino. Ciao, disco di luce. Sognami.
Sabato, ore 16,30
Mi hai offerto un frutto: acre, ad addentarlo; piacevole,
sempre più piacevole e gustoso a mangiarne di più… Ho gustato il frutto, forte,
sempre più, della dominanza sugli eventi, sugli… istinti di incazzatura; forte,
con un acre, piacevole gusto di crogiolarmi… nella comprensione, nel
comportamento corretto, nella superiorità della dolcezza, nella disponibilità
ancora più completa. SICURAMENTE stai pensando di avermi “freddato” stamattina
col tuo “consiglio”. Allora, solo allora, forse sì - ORA - ORA - ORA - TU -
GRANDE - TORREGGIANTE. HAI RAGIONE, lo riconosco. Aiutami a farmi questo “abito”. E’
un’impellenza, la mia. Hai maledettamente ragione tu… Per tutto quello che di
generale mi hai trasmesso dentro. Con te vicino, mi sento di poter diventare un
eroe… no!, comunque, migliore. Di quel che sono. E, quindi, grazie, Grazie,
GRAZIE. Ma io-tu-chi riceve di più? Cosa dare in cambio? A te? Certo non è un
bilancio, non sono un ragioniere! Stammi vicino. Io, io griderei adesso -
Mangio e griderei. Bolle scoppiettanti
intorno. Verdura - Tu - ingoio pane - TU, pesce - TU - FRUTTA - TU - CAFFE’ - TU - TU - TU… Che
succede? Luminarie e scoppi d … te. A tirarmi fuori dalla palude di tutto. Ti
ho rimosso, ti ho sfrattato: dal ventricolo sinistro, in tutti e due; comunque
è questo il senso. Fai tu. E poi… Non ho mal di testa, come nei giorni scorsi.
Tu analgesica? Sì. Mi hai trovato il bandolo di una matassa che s’ingarbugliava
e mi bloccava lo stomaco e quindi le tempie. Soluzione in offerta speciale a
qualcosa che rode dentro. Sta di fatto… mal di testa… no. Ti sento. Ti “sento”
per tutto questo. E per altro ancora. Chiudo. Ma ti scriverei un trattato.
Ore 22
Sei qui, con me. Al pullman, sono andato su Marte; poi, la
freddezza, l’efficienza o meglio l’imbranataggine, i miei limiti, sono andati
via. Tornavo verso casa ed eri con me. Ho maledetto i miei limiti. Ti ho
ferito. A casa, ho arrostito un po’ di bistecche: la più bella è stata per te!
Mi sarebbe piaciuto, avrei voluto tenerti vicino. Hai sofferto; hai esitato a
dirmelo. Ho sofferto con te, dopo; con pena. Ti amo di più, in modo pulito,
chiaro, a testa alta, Io… mi sono sentito più vicino… più comprensivo… Grazie.
E grazie per quello che mi hai detto tanto tempo fa… Lo ricorderò, sempre. Te
lo ricorderai, sempre. Meriti tantissimo. Ti ho dato poco. Vorrei darti
qualcosa di splendido, al livello tuo e più ancora. Non sei grande, no; sei
immensa! E meno fragile di ciò che immaginavo prima di stasera… Ci sarà sempre
un arco voltaico ad unirci. Sono felice che tu sei felice. Brandelli di pezza
di felicità che volteggiano a posarsi sul mare della tranquillità, della
serenità che posa, finalmente, dentro! Avresti scritto tu! E la sofferenza si
dissolve; resta un lieve trepidare per tutto il corpo. Sei il disco di luce che
attira, in cui ci si perde. Ho qui le cose che hai detto. Le prendo per me.
Sono, SONO mie. Sei stupenda. Pretendi nulla per ciò che dai. Ed ora il ritorno
a bomba, fulmineo, al desiderio di toccarti e guardarti negli occhi, piano,
senza farti male. E basta; e capire che va bene così o chissà! La certezza che
scoppiano e scintillano anche in te i lampi della nostra sintonia. Ciao,
piccola. A domani. Lo sappiamo.
Venerdì, 17,30
Se senti un grido, da infinita distanza, vieni: sono io a
chiamarti, schiacciato, un po’ curvo. Comunicazione?! Non solo. Bisogno,
urgenza di colmare la solitudine di grida nel deserto. Spazi aperti non più di
erba bruciata, ma di erba tenera smeraldo, voglio.
Lunedì, 18
Hanno spento la luce, oggi, in ufficio. Luminosità e suoni,
ovattati. Muri ricostruiti. Indifferenza tornata, tranne che per alcuni
particolari. Buffo e triste. Più triste che buffo. Per me serenità in meno,
bile in aumento. Sorrido, ora. Stamattina no. Pensaci e non allontanarti più.
Mercoledì, 20,30
Ti ho telefonato! Eri
lontana, abbarbicata allo scoglio appuntito e lancinante delle tue paure
(mie?!!) (anche, forse!), vinta e immobilizzata dalle tue ali (gabbiano)
spezzate da te, da me, da tutto, da tutti, esitante nell’allungarmi quella mano
che un impulso, altri impulsi in altri momenti, mi spingono a desiderare.
Simili anche in questo, simili e dannati. Ho bevuto di nuovo ciò che hai
scritto. Sei più libera di me, meno condizionata dai condizionamenti (forse!).
Ma pronta a tirarti nel guscio, come me; a battere ed emettere scintille alla
stessa intensità e frequenza dell’altro polo (tu, il polo positivo). Sintonia
anche questa?! Stanchezza di sé stessi proiettata nell’altro, sensibilità
esaltata allo spasimo nell’avvertire le ansie e l’incapacità di volare
nell’altro, immediatamente. Tutto questo ed altro ancora. Mi ritornano più
spessi i condizionamenti che lacrime ed impulsi vorrebbero rigettare, i
tormenti e i tumulti che non so o non voglio decifrare. Io allora letterato di
me stesso - te, tu letterata di te stessa - me. Scelte che non sai - so fare,
acredine che non sai superare, insoddisfazione che non so vincere. Cristo,
tutti e due con la nostra Croce, croce che contribuisce a definirti, a definirmi.
Avverto assenza di libertà alle origini del tuo pulsare per me, del mio per
te. Ecco io terribile io crudele -
impietoso a spazzare finzioni - a ripulire da slanci chirurgo implacabile e di
nuovo arido - meccanico nel mettere a nudo il male. Soffro della nostra stessa
sofferenza con la dispersione e la indeterminatezza del convalescente. Soffro
nel sentirti lontana, elettrodo non più alimentato dalla corrente (tu, io?).
Non ti cancello, non posso. Sei dentro di me, sei parte di me ormai, per ciò
che mi hai dato, per ciò che continui a darmi, per quello che mi hai fatto
crescere. Non ce l’ho con te per le proposte che mi sono rimaste nel gozzo e
che non usciranno più. Sei troppo simile a me perché possa avercela. Ti amo
anche per questo. Resterai in me anche per questo. Mi-ti rendo-i conto del
significato di proposte o scelte. In questo momento ti abbraccerei ma senza le
scintille dei fuochi d’artificio. Non sei di troppo, di più. Come posso non
perfezionare ciò che mi hai insegnato a far parte di me? Liberazione da chi, da
che cosa? Amara liberazione da qualcosa che non aveva obblighi, impegni,
soffocamenti? Da qualcosa che io stesso, tu potevamo definire e ridefinire? O
piuttosto dalla stanchezza-sofferenza-impulsi-desideri-parole dette non dette?
Addio, mia cara. Ciao al sentimento soffocato stanco ancora prima di nascere.
Ciao ai conflitti e ai turbamenti che potrebbero nascere se… Ma rimani,
elettrodo positivo, sempre, a camminare con me, con il sorriso, con la rabbia
(appena grintosa e adorabile) di oggi: elettrodi in cammino sui due binari;
ormai ruota su cui poggia il mio traballante locomotore, su cui poggia la tua
croce col sorriso. Non monadi che si urtano e si respingono: la traccia l’hai
lasciata. Per sempre. Lasciamene ancora. Ti prego. io.
Ci lasciammo. Fu quello un addio senza traccia. Ci sembrò.
Avemmo paura della perfezione dell’amore e della nostra imperfezione. Di
ridurlo a piccolo sentimento quotidiano. Noi titanici nei nostri sogni d’amore.
Ricordi? Ci piaceva il Brand di Ibsen, perché era ansia di assoluto. O tutto o
niente. E bruciare come frecce ardenti in volo verso l’infinito. In un attimo
il tutto e il nulla. Non il niente che banalizza e rende quotidiano il nulla,
ma il nulla nulla, il senza, il vuoto. Io senza di te, ti dicevo, sono nulla.
Senza: ed è già una sottrazione, che prelude al vuoto. Senza senza senza =
vuoto. Vuoto vuoto vuoto = nulla. Noi al più scegliemmo il meno. Scegliemmo il
vuoto, che negli anni si è moltiplicato e ci ha fatto scoprire il nulla. Io il
nulla di me? Tu il nulla di te? Forse. Noi il nulla di noi. Fu allora che
scelsi un nuovo amore? Fu allora che scelsi lui per colmare il
vuoto-silenzio-nodo scorsoio che mi serrava la gola? O prima o più tardi o mai
o sempre? Non ricordo più. Ricordo che mi disperai. Ricordo che ti scrissi ti
scrissi ti scrissi:
Mi mancano le parole e mi manca il coraggio. Per la prima
volta sento di averti perso. Avrei voluto chiamarti, ma il timore del tuo
silenzio mi ha bloccato, il timore di non sapere più cosa dire. Sono rimasta dapprima
sorpresa, dolorosamente, come quando ti capita qualcosa d’inaspettato e
crudele. Poi, stordita, come se non riuscissi ad afferrare il senso delle
parole. Poi angosciata, come quando ti capita l’irreparabile e ti afferra lo
sgomento perché prendi coscienza che non potrai più dire “domani”…
E non ci furono più domani per noi. Aveva vinto il non
amore. Aveva vinto il silenzio. Quella incapacità di raccontarci l’amore per la
paura dell’amore. Per la paura di contaminarlo, di sciuparlo, di svilirlo.
Infatti, non spedii quella lettera, né tutte le altre che ti scrissi, anzi
sparsi al vento le tue. Le sbriciolai nel mare. Le sotterrai nel mio giardino
fra le radici delle rose che amavamo tanto. Solo alcune, queste, le meno
appassionate, le meno ardite, le meno incantate, rimasero dimenticate nel fondo
di un bauletto che mi avevi regalato per nascondere agli occhi degli altri i
nostri sogni e le nostre imperfezioni. Le nostre ombre, mai accettate, mai
assorbite, mai rese parte di noi. I nostri sogni e le nostre imperfezioni
dispersi nell’aria nella terra nel mare. I nostri sogni e le nostre
imperfezioni. Dispersi negli anni… Mi sono stati ridati tutti: sogni e
imperfezioni. Me li ha restituiti il vento, me li ha restituiti il mare, me li
ha restituiti la terra. Perché (ricordi?) io sono di vento di mare di terra di
fuoco e di cielo, ti dicevo, e i miei sogni sono impastati con me. Le
imperfezioni no, non erano contemplate tra te e me. Le imperfezioni erano il
nostro silenzio. Il nostro patto segreto: negarne l’esistenza. E sono rimaste,
invece, come i nostri sogni, negli anni, nonostante gli anni… Non abbiamo
realizzato i sogni. Non abbiamo cancellato le imperfezioni. E non ho cancellato
te, mio sogno, mia imperfezione. Certo, anche tu ora non sei più un ragazzo. Il
mio ragazzo. Anche tu forse avrai incontrato nuovi amori, a cui affidare i tuoi
sogni e forse anche le tue imperfezioni. Con gli anni l’assoluto diventa
relativo e il pieno è sempre mancante di qualcosa. Ma non ci facciamo più caso.
È come per la musica. La perfezione di Dio è la musica. La sua armonia. Guai a
incrinarla. Eppure, il tempo logora i nostri sensi e non ci accorgiamo più
della nota stonata oppure l’accettiamo perché siamo diventati più indulgenti
con noi stessi e con gli altri. Col tempo, l’ombra spegne la luminosità del
giorno, e ci appartiene. Anche tu, forse, ora avrai accettato le tue ombre e
potrai raccoglierle accanto alle mie. Perché il cuore, nel frattempo, si sarà
fortificato. Sarà diventato di pietra. Con tutti i tuoi limiti, ma anche con
tutto il tuo amore, forse non potresti deludermi più, ora. Non potresti tornare
a ferirmi, ancora. Uccidermi. Come allora. Ricordi Oscar Wilde e “… ciascun
uomo uccide l’oggetto del suo amore…” Più o meno così, ma il senso è quello.
Sono morta anch’io? Non lo so. Se sono rimasta in te - tu in me non lo so, ma
potrei nuovamente morire con te. È forse questo il destino di quanti come me
non riescono mai a varcare la soglia della maturità, a gettare i sogni in fondo
al pozzo. Solo il pozzo “più fondo del fondo” avrebbe potuto avere ragione sul
cuore. È necessario un pozzo per non morire d’amore? Ci sono vecchi che non
hanno conosciuto mai la follia d’amore e ci sono vecchi ancora pazzamente folli
d’amore! Io appartengo a quest’ultima
categoria. E sono sola. Delusa. Il corpo piegato dagli anni. Ma con il cuore
ancora cuore e ancora vivo. Insopportabilmente vivo. Per questo batte e soffre
ancora. E non accetta la realtà. Devo cercami un pozzo? Un pozzo. IL POZZO. Che
mi faccia dimenticare quanto ho amato il mare. Che mi faccia cancellare i
sogni… Oppure… Forse non è tardi. Vieni a salvarmi. Saremo in due. Da soli non
si può, ma in due… Ho bisogno dell’altra metà del sogno per sentirmi intera. Ti
aspetto. Non lasciarmi più sola. Non lasciarmi sola. Non lasciarmi… Io? Tu? Cosa ne è stato di noi? Cosa ne sarà? “Ci
sarà un arco voltaico ad unirci sempre”. C’è ancora?
(Ma la lettera, come tutte le altre, non fu mai spedita e
non giunse mai a destinazione. Lei
invecchiò nell’attesa e non seppe mai se il suo ragazzo c’era stato. Se c’era.
Se ci sarebbe stato. Se l’avrebbe raggiunta... Non seppe mai se l’amava ancora
o l’avrebbe amata. Non seppe mai se anche lui avesse gettato i suoi sogni nel
pozzo o se avesse conservato nel cuore l’immensità del mare... Se era stato una
sua invenzione o la sola realtà. Un sogno. Il pozzo o il mare o tutte le rughe
del cuore. Da accettare. Da cancellare. Avrebbe potuto ancora salvarla dalle
rughe del cuore?... Lei non seppe mai).
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