Il sole lentamente si sposta
sulla
nostra vita, sulla paziente
storia
dei giorni che un mite
calore
accende, d’affetti e di memorie...
(Attilio
Bertolucci, stralcio della poesia “At home”)
Desidero ricordare, accanto alle poesie di Dragan Mraovic
del POPOLO DEL VENTO, anche gli zingari da me conosciuti da bambina in via
Maggiore angolo via De Rossi, nel borgo antico, a Bitonto, mio paese di
origine. E riprendo a parlarne riportando un breve stralcio del mio
romanzo Le piogge e i ciliegi, vol I (SECOP edizioni, 2017), che ha
come protagonista principale mio nonno Mincuccio.
<Tu mal sopportavi in quelle strade l’insediamento
improvviso dei “trusciàndə”, non per insofferenza verso quella gente
stracciona, ma per le loro urla e bestemmie che bersagliavano le nostre
giornate di giochi innocenti e di vivace curiosità per il mondo che ci
circondava.
“Rə trusciàndə” erano strani individui, una sorta di
zingari, che vi avevano trovato rifugio, trasformando il quartiere in una vera
“corte dei miracoli”: vivevano in clan, in promiscuità e di elemosina; urlavano
uno strano gergo, volgare, scurrile e sentenzioso.
“A chì t’è bbìvə!” (a chi ti è vivo! -?-)
e a cə t’è mùrtə e stramùrtə!” (a chi ti è
morto e morto ancora!)
era l’intercalare preferito. La meraviglia veniva esternata
con:
“a rə mùrtə d’attàndə e də màmətə!”
(ai morti di tuo padre e di tua madre!)
e l’interlocutore al culmine del giubilo gridava:
“a rə stramùrtə de sórətə!”
(ai tanti morti di tua sorella!),
“ca tə pózzə pəgghià ‘nu ‘zùltə o ‘na gòccə!”
(che ti possa prendere una sincope o un colpo al cuore!),
“a rə
córnə ca tìnə!” (“alle corna che hai!”)...
“a la féssə də màmətə!” (a quella stupida di tua
madre! -?-)…
oppure il più eloquente: “au pəcciàunə də màmətə!”
(al sesso di tua madre!)
Ma queste esclamazioni avevano, a seconda dei casi, anche la
duplice valenza della vera e propria imprecazione. O della bestemmia. E con
parole impronunciabili anche contro Dio, la Vergine e tutti i Santi. Pietre
infuocate che rimbalzavano ormai tra i muri del paese antico.
Tu, per contrastare quel turpiloquio, c’insegnavi le parole
del rispetto e della cortesia.
“Le parole gentili che inteneriscono il cuore”, dicevi.
Avevamo un lungo elenco di parole “gentili”: grazie, prego,
scusa, è permesso? Non mancherò…
Spesso, poi, “rə trusciàndə” andavano per strada a
indovinare la fortuna: gabbietta e uccellino, che prendeva col becco uno dei
tanti fogliettini che portavano in un cestino e su cui c'erano frasi
beneaugurali o di cattiva sorte. Alcune volte, si accompagnavano con un pianino
scordato con all'interno alcune canzoni strimpellate in precedenza e
misteriosamente registrate.
Liberi bestemmiatori e liberi sognatori. Diavoli rissosi gli
uomini, e bambini appesi al collo come collane su vesti lunghe di scalze regine,
le donne.
Sempre in giro e sempre di ritorno, forti della viva forza
di essere “clan”. Erano molto simili agli zingari, che più tardi e più
opportunamente vennero chiamati Rom, ma non ho mai saputo se lo fossero per
davvero. Uguale era il loro comportamento. Erano diventati, però, stanziali. E
bestemmiavano contro la guerra e ogni tipo di violenza che non fosse quella
verbale. Solo nelle parolacce si sbizzarrivano, perché avevano anche un loro
codice d’onore che rendeva coeso e forte il loro gruppo, da cui si tenevano
lontani tutti gli altri...
Un mondo che mi affascinava e mi terrorizzava e che avrei
osservato dalla mia finestra per fortuna o purtroppo solo per poco tempo. Il
tempo di andare lontano. (Accanto alle invettive e alle bestemmie c’era il loro
canto, che a me piaceva tanto)
... la nostra vita è semplice, primitiva,
ci basta avere per tetto il cielo,
un fuoco per scaldarci
e le nostre canzoni
quando siamo tristi.
Il nostro segreto sta nel godere
ogni giorno le piccole cose
che la vita ci offre
e che gli altri uomini non sanno apprezzare.
Quando si muore si lascia tutto:
un miserabile carrozzone
come un grande impero.
E noi crediamo che in quel momento
sia molto meglio essere stati zingari che re.
(…)
Il nostro segreto sta nel godere ogni giorno le piccole cose che la vita ci
offre e che gli altri uomini non sanno apprezzare: una mattina di sole, un
bagno nella sorgente, lo sguardo di qualcuno che ci ama. É difficile capire
queste cose, Zingari si nasce.
Ci piace camminare sotto le stelle, la nostra è una vita semplice, primitiva.
Ci basta avere per tetto il cielo.
Un fuoco per scaldarci e le nostre canzoni quando siamo tristi.
(Vittorio Mayer Pasquale (Spatzo), “La nostra vita migliore è libertà”,
1973).
Ma c’erano ancora tanti altri personaggi particolari a
colpire la nostra quotidianità, fatta di realtà e fantasia, in quel quartiese
antico.
C’era la “nincò-nànchə chə rə gàmmə a tarallìnə” (quella
che ondeggia con le sue gambe a tarallino): una vecchietta con le gambe arcuate
che si dondolava sulla persona per trovare un suo equilibrio mentre camminava.
Noi ridevamo di cuore appena la vedevamo passare e cercavamo di imitarla nel
suo eterno tentennare.
C’erano “Fifìnə e Fófónə”: una coppia che
destava la nostra ilarità. Lui era un omone enorme con un pancione traballante
e con una voce da orco che ci metteva paura (Pollicino sempre in agguato!).
Lei, piccola, magrissima, con una vocina sottile e lamentosa che nessuno amava
ascoltare. Persi nella nebbia della dimenticanza.
Altro personaggio che suscitava la nostra curiosità era un
ragazzino, che abitava nei pressi della nostra casa in via De Rossi, perché lo
chiamavano “bəccùccə” (beccuccio) in quanto aveva appena sopra il mento,
a mo’ di pizzetto (ora tanto di moda e chic), una macchia scura e fitta di
peli. Non aveva un nome, ma tutti lo conoscevano per quella caratteristica,
oggetto di pettegolezzi delle donne del vicinato
(l’ho rivisto per caso molti anni fa: portava le bombole del
gas a domicilio e non aveva più quella macchia nera al mento, ma una graziosa
fossetta glabra che gli aveva restituito anche sorriso e disinvoltura…).
La nonna era sempre la difensora di chi veniva passato al setaccio
delle lingue biforcute delle sue aiutanti.
Tu la chiamavi: “u avvəcàtə də rə càusə pèrsə. Rə paròulə
tə vénənə lìtəchə lìtəchə quànnə à da pəgghià la difésə də quàlchedónə”
(L’avvocato delle cause perse. Le parole ti scorrono veloci
quando devi prendere le difese di qualcuno).
Ma gli aneddoti riguardanti la gente del quartiere sono
davvero tanti.
Uno particolarissimo? Storia o leggenda, cronaca o
invenzione ad uso e consumo della nostra curiosità?
Ti ricordi di “capotorto” che abitava dirimpetto alla nostra
casa, ma tre o quattro finestre più in là della casa di Annìnə Stəddùzzə?
Era un uomo di mezza età, così soprannominato perché aveva
il collo che gli ciondolava sull'omero sinistro. Tu, ogni volta che noi ti
chiedevamo perché avesse il collo così piegato e come mai non riuscisse a
raddrizzarlo, ci raccontavi la sua storia con la lievità di una barzelletta o
la magia di un racconto fantastico.
“Da ragazzo”, dicevi, “'capotorto' aveva il vizio di
prendere in giro una donna che abitava proprio dirimpetto a lui e che aveva
fama di essere una fattucchiera. Ebbene, ogni giorno era sempre la stessa
storia. Lui l'apostrofava in italiano, perché ‘aveva fatto le scuole alte’, con
tutti i più brutti appellativi: ‘Puttana, figlia di zoccola, troia, hai finito
di menare sentenze? A quale povera figlia di mamma hai tolto oggi i soldi con
le tue puttanate? Quanto hai spidocchiato in questi giorni a tutta quella
povera gente che viene da te a farsi leggere le carte? Quante ragazze ammalate
d'amore hai illuso, fregandoti i soldi, eh, puttana!?!’.
‘Pòvərə a tàjə’, rispondeva lei acida, cə nàn
tə féucə rə càzzə tìjuə, prìmə o pòuə nàunə scəchìttə la lènguə t’àva cadàjə,
ma pìurə la chéupə. Jàgghjə fàitə a cùrə crìstə o au diàvuə ca tə faciójə!’.
(Povero te, se non la smetti di farti i fatti degli altri
non solo la lingua ti cadrà, ma anche la testa! Ho fiducia nell'opera di dio o
del diavolo che ti ha fatto nascere!).
‘E a te devono cadere le mani e gli occhi per quanti poveri
cristi prendi per fessi!’.
‘E a tàjə la chéupə, sò dìttə, quàndə è auvèjrə chèssa
dójə ca stèjə ad adèrscə!’
(E a te la testa, ho detto, quanto è vero il giorno che sta
per cominciare!)”.
Era il ritornello di tutti i santi giorni e, una mattina
tutti i vicini di casa, compresi tu e la nonna, sentiste Franchino piangere,
urlare di dolore, gridare, imprecare. Dalla finestra spalancata la mamma di
“capotorto” si sbracciava, piangendo disperatamente.
“‘Gente, accorrete, a mio figlio se ne è caduta la testa!’.
E così fu”.
Ora era sua madre, povera donna, a prendersi cura di lui. Lo
avevano portato da dottori, maghi, esorcisti, ma il guaio era fatto e nessuno
era riuscito ad eliminarlo. Nessuno era stato in grado di raddrizzare quella
testa di... che se si fosse stata zitta con quella sua bocca sputaveleno ora
non sarebbe rimasta ciondoloni sull'inutile collo. E, invece, Franchino aveva
dovuto abbandonare anche gli studi, in cui prometteva molto bene.
Ed ora era sempre lì, come un quadro astratto nella cornice
della sua finestra spalancata, con la testa a cascata sull'omero sinistro, una
smorfia di dolore e rabbia cucita sulle sue labbra mute
“Jèjə ‘nu lùpə sùrdə”… (è un lupo sordo) oppure “‘nu
mópə frəcàtə” (intraducibile ma con più o meno lo stesso significato),
“càpə də gàléttə” (“testa di secchio rinforzato”, probabilmente con
riferimento alla durezza), dicevano di lui, sottintendendo che era sordo ad
ogni sollecitazione perché era lì a tramare, nel suo ostinato silenzio, chissà
quali vendette che non avrebbe potuto mettere mai in atto.
Così l’abbiamo visto noi per tutti gli anni della nostra
permanenza in via De Rossi. Sua madre continuava a parlare per lui, inveendo
invano contro la vecchia megera, che da tempo aveva lasciato questo mondo,
portandosi con sé la malefica formula che forse, invertendola, avrebbe potuto
far raddrizzare il collo a quell'uomo distrutto e mai rassegnato. Mai
rassegnata anche sua madre, ormai vecchissima e con gli occhi cisposi e
arrossati per il troppo piangere. Le donne avevano pietà di lei. Gli uomini
erano solidali con lui. Quei pochi che erano rimasti.
La
guerra li aveva portati tutti via giovani e meno giovani
Ed ora, ogni tanto, ne tornava uno dalla Russia, dalla
Grecia, dalla Spagna. Con addosso ferite e disabilità peggiori di quella di
“capotorto”.
Ferite
invisibili ma ben più gravi dentro
Gli altri non erano più tornati. Erano rimaste le donne. E
le povere ombre dei reduci, ridotti senza gambe, con un braccio, con un tremito
continuo in tutto il corpo. Solo occhi fissi e immobili nel vuoto del cervello
che non voleva ricordare e non sapeva più sperare.
Silenziose
ombre vaganti in un paese che risorgeva
Amara
rinascita con quei pochi uomini sciancati mutilati sconfitti
Mi facevano tutti paura. Altro che “capotorto”! Immobile nel
riquadro della finestra e perciò innocuo. Erano i loro passi a farci paura. Ad
accorciare distanze di sicurezza. A far sentire più vicino il pericolo.
Qualcuno, urlando e imprecando contro Dio e contro gli uomini, passava per
strada trascinato dai figli su carrette di legno con piccole ruote scure sotto
una piattaforma di assi messe insieme alla bell'e meglio: un giaciglio per un
mucchietto d'ossa e di stracci. Non esistevano carrozzelle per disabili allora,
almeno nel nostro paese.
Uno di quegli uomini era diverso. Stessa piattaforma lercia
e improvvisata, stesse rotelline di fortuna, stesse imprecazioni, ma dal torace
possente e seminudo in tutte le stagioni. Senza gambe. Occhi di brace, capelli
lunghi, radi, disordinati. Urla beluine che squarciavano il cielo. Bestemmie
blasfeme che ferivano il cuore.
(Dalla cintola in su tutto il vedrai, avrei studiato
molto più tardi, pensando sempre a quell’uomo gigantesco con quel suo mezzo
busto che si ergeva dalla sua piatta tomba).
Da te appresi, in maniera sempre approssimativa, che era il
capo “də rə trusciàndə”. Non destava pietà, ma timore e orrore. Pare che
fosse molto violento e molto potente nel suo clan. Tutti gli dovevano cieca
obbedienza.
(Più volte, nel corso degli anni, mi sono chiesta come un
corpo tagliato a metà, assoggettato completamente agli altri, potesse avere tanta
autorità da assoggettare tutti al suo potere fino a incutere una irrefrenabile
paura. Non sono mai riuscita a darmi una spiegazione chiara. Univoca.
Forse il potere stava nella forte personalità dell'uomo.
Forse aveva i suoi scagnozzi pronti a tutto pur di
assicurarsi il pane quotidiano. Forse...
O forse perché, essendo io una bimbetta allora e avendo io
tanta paura, proiettavo sugli altri i miei timori innocenti, le mie innocenti
paure?
Forse perché tutto era avvolto nel mistero. Di tutto si
parlava tra adulti, ma di tutto non si doveva parlare di fronte ai bambini.
Forse perché erano tutte dicerie).
Le voci si rincorrevano per le strette strade del paese
antico e non avevano mai suono chiaro, parole precise. Le parole sembravano di
fumo e di nebbia. Si addensavano e poi svanivano. Parole come nuvole. Voci.
Sussurri. Mezze verità. Molta fantasia.
La
gente aveva bisogno di credere in qualcosa
Meglio se inverosimili realtà. Fantasmi notturni in
processione. Monachicchi nelle case a distribuire soldi o a fare dispetti.
Asini in volo. Non le più credibili farfalle multicolori, ma asini a loro
misura.
Improbabili
realtà e molta immaginazione
Era stanca di brutte verità, la gente. Di tragiche verità. Aveva
bisogno di dimenticare. Forse anche di sognare. Ma non sapeva neppure cosa
fossero i sogni... E così si arrampicava sulla fune-appiglio della sua povera
realtà. (…)
Ricordo ancora molto bene, nonostante le mie brevi primavere
e i mai dimenticati panieri di ciliegie sui balconi, i pettegolezzi delle donne
di quell’angolo antico di mondo, anche se, paradossalmente, la nonna, allora,
non aveva ai miei occhi una sua definizione dettagliata. Era come se lei
facesse parte integrante di quelle donne. Quasi fossero un unico blocco.
Tutte quelle donne, comunque, ne sapevano meno di nonna dei
veri problemi della società o della comunità sociale in cui vivevano. Il loro
era solo un blaterare di inezie senza punti di riferimento concreti e
importanti. Nessuna aveva sfiorato orizzonti più vasti oltre i confini di via
Maggiore angolo via De Rossi, oltre la vamasciòulə, u fùrnə də sàn
Giuànnə o u fùrnə də Sànd’Andrè, la chiàzzə, la Pórtə…
(la fontana, il forno di san Giovanni, e quello di
sant’Andrea, la piazza, la Porta Baresana, cioè quella più importante delle
quattro porte d’ingresso nel paese antico, dove la sera contadini e braccianti
s’incontravano con i datori di lavoro “pə scì a prəmèttə”: andare a
farsi ingaggiare per il giorno dopo come braccianti e per incontrarsi in
campagna a “pógg’àlbə”: per la prima alba, al primo chiarore
nel cielo).
E forse non si ponevano neppure, come invece a te accadeva, il dubbio che oltre ci fosse altro da scoprire, da conoscere, apprezzare oppure da rifiutare, biasimare o per cui inorridire.
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