martedì 4 ottobre 2022

Martedì 4 ottobre 2022: ricordi e memorie lontane...

E sono ancora qui a chiedervi scusa, miei carissimi lettori del blog, per aver approfittato oltre l’immaginabile del vostro tempo, dei vostri occhi, della vostra pazienza, propinandovi l’intero primo capitolo del primo volume del mio romanzo Le piogge e i ciliegi, dedicato a mio nonno Mincuccio. Il fatto è che io non posso fare a meno di scrivere all’infinito parlando di lui, perché è il mio infinito da quando sono venuta al mondo e lo sarà fino all’ultimo mio respiro.

Giovedì scorso, durante la magica serata a Palo del Colle, di cui ho parlato nei giorni precedenti, mi attardai a ricordare le mie difficoltà incontrate a scuola e in casa quando cominciai il mio percorso scolastico. Omisi, per l’emozione, che una mia caratteristica dissonante per quei tempi, si era negli anni ’40 -’50 del secolo scorso, era il mio mancinismo. Ebbene sì, il mancino, a quei tempi, veniva guardato con sospetto per il pregiudizio infondato ma ben radicato soprattutto nelle donne “casa e chiesa” che la mano destra fosse legata al Bene e, quindi, a Gesù, e che quella sinistra richiamasse il Male e, quindi, appartenesse al diavolo per cui bisognava correggere questa “anomalia”, e si ebbe a lungo “il mancinismo contrastato”, di cui fui vittima anch’io. Di qui le mie paure, la mia timidezza, le mie difficoltà di apprendimento. Ma andiamo con ordine, riportando alcuni stralci fondamentali del X capitolo sempre del primo volume de Le Piogge e i ciliegi. Senza commettere l’errore di domenica scorsa. Promesso. E, naturalmente, parto da nonno Mincuccio e nonna Angelina, pilastri della mia infanzia e adolescenza su cui ho costruito tutta la mia vita.

<… Poi, la notizia che saremmo ripartiti tutti insieme, comprese me e Lizia, perché babbo non poteva più tollerare che io non andassi a scuola, vi sorprese dolorosamente. Avevo ormai quasi sei anni e mezzo ed ero in ritardo. Aveva fatto l'iscrizione per me in prima elementare e per Lizia in terza perché anticipataria. Ti lasciai. Col pianto in gola. Ci separarono. Ci separammo. E andai via con mamma e babbo e Lizia e i due piccolini. Lasciai la vostra tristezza e il vostro pianto soffocato, cancellato soltanto dalla gioia di viaggiare in un treno lungo lungo che mi avrebbe fatto guardare il mare, percorrere la pianura con alberi d'autunno, scoprire le montagne    (passa il treno lungo lungo/ per le vie della città,/ lo vedete, lo sentite,/ avanti, signori, per Roma si va.../ ciuciùuuuu...). Non eravamo diretti a Roma, ma in un paesino di montagna nel cuore del Gargano, dove a ottobre faceva già freddo. Dove soffiava sempre un brutto vento di tramontana e dove le maestre ci suggerivano di mettere le pietre in tasca per diventare più pesanti e di afferrarci alle funi che c'erano lungo i bordi delle strade perpendicolari come burroni, per evitare che il vento ci afferrasse e ci portasse via nei suoi vortici pericolosi. Io avevo paura dei mille lupi che in quel vento ululavano soprattutto di notte, ma desideravo che almeno una volta mi rapissero per farmi volare, un po' come facevi tu quando ci sollevavi fino al soffitto per le capriole. (Conflitti insanabili di opposti desideri e pensieri, sempre presenti in me e probabilmente presenti in tutti gli esseri umani. Perché io dovrei essere diversa, sia pure nella mia scontata unicità?).

Il paesino s’inerpicava lungo il fianco della montagna fino alla cima, tanto che persino la corriera che vi arrivava e ripartiva due volte al giorno da Foggia e per Foggia (alle 9 del mattino e alle 4 del pomeriggio in arrivo e a mezzogiorno e alle 9 di sera di ritorno) ansimava come una vecchia signora alle prese con mille acciacchi mentre arrancava su quelle strade simili a baionette puntate contro il cielo. (…) La scuola, molto grande e circondata da alberi e siepi, era a pochi passi dalla piazza della caserma.(…) 

Io, in verità, avevo finito la prima elementare e non avevo imparato niente. Mi sembrava di non capire nulla. A stento, verso la fine dell’anno, avevo imparato a leggere e scrivere e a contare fino a cento: “a - e - i - o - u l’asinella che sei tu…”, la voce di mamma a canzonarmi, ignorando di toccare corde dolenti… (…) La signora De Benedictis era stata in precedenza la maestra di Lizia. E non ricordo assolutamente come mai fosse diventata poi anche la mia maestra. Risalendo al suo cognome, m’ero fatta l’idea che fosse straniera oppure vecchissima tanto da avere un cognome latino, lingua di Dio, come mi aveva detto più volte don Mincucciouno, e degli antichi romani, come un giorno mi aveva mostrato Lizia sul suo libro di storia. Su quel cognome e sul suo aspetto fisico ricamai una serie di storie, dalle più divertenti alle più cupe, che non mi permisero mai di valutarla come insegnante. Era alta, magra, rossa di capelli (con una pettinatura alta che mi ricordava davvero le matrone romane e ancora di più mi faceva sospettare che fosse millenaria); spigolosa di viso e con un lungo naso rosso fuoco. Era di volta in volta pomodoro, fragola, quattro ciliegie (raggruppate in un unico gambo), un peperone o un pomo (come quello della tua fiaba Del Pomo e della Scorza). E anche su quel particolare, per niente irrilevante, inventavo storie incredibili e inverosimili. Che mi distoglievano dall’ascoltarla. In realtà, era paziente, distratta, ripetitiva. Io le ero anche affezionata ma non troppo (a di amo a a a… bi di bue bi bi bi… ci di ciliegia ci ci ci ma anche ca di cane…). Con la bacchetta indicava sulle immagini del vecchio alfabetiere, che aveva conosciuto generazioni di scolari, l’amo, il bue, la ciliegia, il cane. E… “bambini ripetete con me”. Io non ripetevo. Pensavo che erano più divertenti le cose, gli indovinelli, che avevo imparato all’asilo con suor Agnese e suor Crocifissa (trenta giorni ha novembre/ con april giugno e settembre/ di ventotto ce n’è uno/ tutti gli altri ne han trentuno… lunedì vien pianino/ martedì gli fa l’occhiolino/ viene in fretta il mercoledì/ e si mangia il giovedì/ venerdì piange di tristezza/ e sabato gli fa una carezza/ poi ecco la domenica che a casa resta:/ tutti a tavola a farle una grande festa… son piccino cornuto e bruno/ me ne sto tra l’erbe e i fior… sto sempre saldo e ritto/ su una gamba sola,/ proteggo zitto zitto/ il nido che consola/ il mio silenzio pio./ D’inverno spoglio sono/ eppure a tutti dono/ il caldo focherello./ Chi sa l’indovinello?) Sapevo subito rispondere: il mese! la settimana! il grillo! l’albero! Ora, invece, quella cantilena di “a bi ci” mi annoiava e tutte quelle parole dell’alfabeto le tenevo per me. Lei mi guardava. Io restavo muta. Mi costringeva a scrivere con la destra, ma a me risultava più facile usare la sinistra. E sempre in silenzio, con enorme difficoltà e fatica, che le mie compagne di classe non provavano, mi esercitavo a scrivere le aste, le letterine dell’alfabeto e le prime sillabe che poi dovevo unire in paroline, col trattino tra una sillaba e l’altra, per poterle leggere nel loro intero. Ma non le leggevo. Mi sentivo diversa dagli altri bambini e mi vergognavo. Il pennino non obbediva al debole comando della mano. Il polso s’irrigidiva, cercava di convincermi: “passa la penna all’altra mano, là sta mio fratello che è più forte e ti può aiutare. Ascoltami, non dar retta a quella che non capisce niente. L’altra mano sa già scrivere. Perché si ostinano a farti scrivere con la mano sbagliata?”. Spesso mi scontravo con asticciola pennino e calamaio, col quaderno con copertina nera e pagine bianche orlate di rosso e righe grandi e spazi piccoli che non sapevo riempire: senza sapere né come né perché, l’inchiostro dispettoso s’intestardiva a finire su quei fogli prima delle aste e delle vocali o consonanti e dei trattini e subito si allargava in macchie che diventavano buchi lacerati dal mio dito insalivato a cancellarle e giù lacrime e disperazione che in quei buchi penetravano e tentavano maldestramente di nascondersi… Se avessi potuto, avrei rinunciato volentieri a scrivere e a leggere. Ma la maestra mi fissava mi fissava mi fissava… Mi rimproverava mi rimproverava mi rimproverava…‘Tutta colpa della mia mano sinistra?’. Non mi sapevo rispondere... (A domani).

 

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