Avevo salutato mamma, babbo, Anna Maria e Pino senza una lacrima. Mamma, invece, singhiozzava. Babbo sembrava confuso, incerto. I piccoli, indifferenti. Non si erano resi conto che stavo andando via. In macchina sentii lo strappo. Il cuore registrò la ferita. Mamma di nuovo era un punto luminoso lontano. Ero a metà strada tra te e lei. E mi sentii disperatamente sola. Come se quel viaggio lo stessi facendo a piedi con granelli di me che rotolavano in un deserto senza fine, fino a precipitare in un burrone che non vedevo ma c’era. E non ero più Lina Angelina Angela. Ero una pietruzza di raggrumato/frantumato dolore che precipitava giù giù giù sempre più giù. Solo allora scoppiai a piangere per la totale devastazione della mia anima. Piansi a lungo come non mi era mai capitato prima, neppure quando ti avevo lasciato. Allora avevo mamma e babbo e Lizia e Anna Maria e Pino con me. E un treno lungo lungo a farmi sognare meravigliose avventure tra alberi in fuga e lembi di mare e orizzonti lontani. Ora mi sentivo sola e abbandonata in quella macchina in bilico sulle curve e strette strade senza riparo di montagna e l’ansia di precipitare nel vuoto ad ogni tornante. Mi sentivo sola, nonostante la presenza protettiva e affettuosa di compare Luigi, che ad ogni mio singhiozzo mi stringeva più forte a sé e mi parlava parlava parlava come canto triste di infiniti violini… (suona solo per me/ oh violino tzigano/ … se un segreto dolor/ fa tremar la tua mano…). A tratti ritornavo alla realtà, lungo percorsi sospesi tra terra e cielo che non conoscevo. In quella macchina che mi sembrava più veloce del treno e della corriera e che mi metteva paura ad ogni curva a gomito che disvelava ancora burroni e campi di grano che una leggera nebbiolina e le mie lacrime rendevano di un verde cupo e lontanissimo sul fondo. Non ascoltavo. Non sentivo. Ero assordata da quella canzone di pianto e disperazione che mi urlava dentro, dal battito del cuore, dal rumore della macchina, dal rumore delle incomprensibili parole che mi giungevano ora all’orecchio come mormorio di foglie o scorrere di ruscello onde di mare vento di montagna tra gli alberi...
Poi… gli ulivi. Le strade
conosciute. Il cuore placato. Le parole rassicuranti e chiare di chi mi cullava
dolcemente. Il mare. I campi. Le vie con le prime case. La nostra casa. Le tue
braccia ad avvolgere anche il cuore. Gli occhi di lacrime della nonna.
L’abbraccio di Lizia. Il miagolio del gatto.
Per venire da te non
avevo attraversato le strette viuzze deserte di sole del nostro paese antico. Avevo,
invece, percorso le strade larghe con pochi palazzi e i tanti campi incolti
della periferia oltre le vecchie mura. Via della Repubblica era una strada
ampia e lunga che dalla piazza centrale del nostro paese portava all’Obelisco,
un’alta colonna di marmo bianco posta lì a ricordo del miracolo della Madonna Immacolata,
nostra Patrona, che salvò il paese nella battaglia del 1734 contro l’esercito
spagnolo, comandato dal Generale Montemar. Avevamo già superato la chiesetta
della Pietà (dove allora venivano portati i morti che avevano avuto incidenti
in territorio straniero), e l’Obelisco, la grande scuola mussoliniana (come
avrei appreso più tardi) con ampia entrata per i maschi e con tante finestre e
un marciapiede che si slargava a definire quasi una piazza prima del secondo
portone d’ingresso per le donne, molto più interno e riparato. A metà strada
avevamo girato a sinistra e ci eravamo fermati, appena svoltato l’angolo,
davanti ad un palazzo antico con ampio portone in legno grigio-verde affiancato
da una grande saracinesca grigio-chiaro (il “portone di ferro” avremmo imparato
a dire noi).
Lì c’eri tu con Lizia e
la nonna ad aspettarmi.
Pioveva anche quel
giorno. Una pioggerella sottile e leggera che ci bagnò nel nostro abbraccio
commosso e senza parole. Le nostre lacrime si mescolarono con quelle del cielo.
Poi tu mi racchiudesti sotto il tuo braccio e, attraversando il cortile,
corremmo in casa a ripararci.
Avevo ritrovato il mio
adorato nonno della pioggia e delle fiabe. Per questo il cielo aveva stabilito
che quel giorno piovesse? Perché tu potessi fermarti ad aspettarmi? No, no.
Sono certa che, pioggia non pioggia, tu saresti stato là a stringermi al cuore.
E in quell’abbraccio avresti compreso e ricomposto anche la mia anima ridotta
in frammenti di giorni delusi, di parole non dette, di pianto nascosto. “Fra
due mesi mamma tornerà per stare con noi. Verso ottobre nascerà un nuovo
fratellino o una sorellina. Staremo tutti insieme fino all’anno nuovo”, mi
dicesti appena ci abbracciammo. Avevi intuito i miei pensieri. La mia
profondissima pena. Desti un’occhiata d’intesa a compare Luigi che doveva
andare via e licenziare macchina e autista. Stavi soffrendo per il mio stesso
dolore e volevi cancellarlo prospettandomi tutto quello che di bello avrei
vissuto di lì a poco, ricucendomi tu gli strappi, le separazioni, le distanze.
Riportandomi a mia madre e lei a me.
Ero
salva
Mio insostituibile papà,
avevi compreso bene che dirti addio, dirle addio avevano inferto una ferita mai
più rimarginabile nella mia anima, segnandomi per sempre. L’unico ad intuire. A
sapere. A provvedere. TU.
(Ancora oggi i miei occhi
asciutti non sopportano gli addii. Le lacrime sgorgano dopo. Irrefrenabili. Una
valanga che mi travolge e mi distrugge. Sono incapace di chiudere con le
persone. Anche con quelle che non mi corrispondono. Che non sono con me in
sintonia. Che mi fanno del male. Che mi graffiano il cuore. Che mi strappano
l’anima. So abbandonare solo le cose, le case, gli oggetti. Mi piace donare e
spesso so privarmi di oggetti preziosi e cari, senza neppure pensarci. Non ne
sento il possesso. Non la necessità. Dalle persone, invece, ogni distacco è un
dramma. Che mi vede vinta e mai vincitrice. Ma nei rapporti umani non penso
esistano vincitori o vinti. Siamo tutti acrobati sul filo dei sentimenti e
della vita).
Ero
finalmente con te. Nella casa del gelso e delle rose. Sì, ero salva.
Eravamo proprio nella
storica via Generale Montemar che, davanti al nostro palazzo, si slargava in un
ampio marciapiede per poi restringersi con un muro piuttosto alto che segnava
il confine del nostro giardino, da cui sbucavano chiome verdi di alberi da
frutta. (…)
Ma era “u àrvə də rə cìlzə rùssə” (l’albero
del gelso rosso), che svettava glorioso oltre il muro e la saracinesca
d’ingresso nel cortile, a connotare la casa. Era maestoso, con grandi foglie e
in attesa dei rossi frutti profumati e asprigni. Gioiosa esultanza di panieri
d’estate, e tua disperazione di sanguigne macchie nel cortile e sui vestiti di
chi sostava alla sua ombra (…)
(Quante volte con te mi sarei arrampicata su
quel tronco e tra i rami, pantaloncini e maglietta malandati, per raccogliere
nel paniere, che tu mi affidavi, i rossi frutti che spesso finivano per creare
enormi macchie dappertutto; non ero brava come te, ma tu m’insegnavi a mettere
i piedi nel modo giusto sul ramo più robusto e sicuro.
Lizia se la cavava da
sola come in tutte le azioni che richiedevano destrezza e autonomia. E anche
Anna Maria e tutti gli altri, via via che crescevano.
Io avevo sempre il piede
sinistro che avanzava prima del destro e la mano sinistra più veloce, che
spesso contravveniva al tuo suggerimento che contemplava il rapido movimento
della mano destra)>.
Era quella la nostra
nuova casa, in cui avrei ritrovato me stessa e la mia gioia di vivere, di amare
e di sentirmi amata oltre ogni mio inciampo, ogni mia diversità e paura. Ma una
riflessione è doverosa, credo, e la prendo ancora dal primo volume del mio
romanzo Le piogge e i ciliegi:
<(Sì,
quando un bambino si ferma a pensare, un attimo di buio attraversa la sua
anima. E, in quel buio, ha bisogno della presenza degli adulti che ama. Del
loro amore. Il loro ascolto dei suoi pensieri, che sono nuvole scure a
cancellare il sole. Perché piangono i bambini? Spesso il loro è un pianto
disperato, che per gli adulti non ha senso. È solo un capriccio. Per i bambini, invece, è un pianto di
richiamo, un SOS d'aiuto.
Gli
adulti di casa sono per loro magici e sanno i loro pensieri, per cui devono
capirli al volo, comprenderli e aiutarli. È come per i sogni. Quando un bambino
sogna pensa che quel sogno lo abbiano fatto tutti: la mamma, il papà, i
fratellini. Tanto è vero che, quando lo racconta, il suo sogno, dà per scontato
di dire quello che gli altri già sanno. E se non viene ascoltato o capito e
corrisposto ecco formarsi un vuoto nella sua comunicazione con gli altri. Quanta
delusione in quel vuoto di attesa, se la persona amata non ascolta e non sa
leggere nel suo cuore sogni, paure, desideri.
Comincia
da quell’attesa delusa a spegnersi il suo fiducioso sorriso?
È
quello il primo anello di ogni altra delusione che si fa catena e
condizionamento nella vita? O è, piuttosto, un modello d'amore insuperato a
rendere difficile ogni altro incontro, ogni altro rapporto che al confronto non
regga? Non ho saputo darmi mai risposte. Forse perché dovremmo farci prima
tante domande sul perché non abbiamo risposte…).
E sui ricordi e le
memorie mi fermo qui. Ma avrò modo di riprenderli appena avrò un nuovo appiglio
per ricordare, grata a quanti mi seguono con tanto affetto e costanza. Grazie.
Angela-Angelina-Lina
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