E ritorno a raccontare. Non ne posso fare a meno. C’è ancora una parte del mio difficile approccio alla lettura e alla scrittura che non è stata sviscerata come si dovrebbe per riflettere ancora tanto sul felice o infelice incontro con gli insegnanti nella scoperta e affermazione di sé. Riprendo, dunque, dal mio ritorno dai monti della Daunia.
<Ripresi ad andare a scuola per mettere a
fuoco la realtà, che mi sfuggiva, e imparare a leggerla meglio con i segni
dell’alfabeto, come tu mi avevi insegnato con il tuo esempio, e come la mia
maestra dei monti non aveva saputo fare con le parole. Mi mandaste dalla
signora Carmela, nostra parente, come aveva suggerito mamma a compare Luigi. La
signora Carmela, come ben sai, era la suocera di Peppino, ormai diventato un
giudice affermato. Era bravissima e forse un po’ severa, ma ci guardava anche
con molta tenerezza e comprensione. Era alta e magra. Aveva i capelli grigi sul
volto affilato e un’aria signorile che si riverberava nelle vesti e nei modi.
Sua figlia, tua nipote acquisita, era docente di lettere nel nostro glorioso
liceo. Ed era altrettanto brava. Ma io rimasi affascinata da sua madre, la
signora Carmela. Mi piacevano molto le sue mani: lunghe sottili pallide. Erano,
per me, ali in volo. Avendo un’ulcera allo stomaco, come seppi poi, era
costretta a mangiare poco e spesso e portava a scuola, in un tegamino a
chiusura ermetica, delle pappe morbide, in cui intingeva minuscoli tocchetti di
pane che spezzettava lentamente con le dita e che masticava ancor più
lentamente durante tutto l’intervallo. Io m’incantavo a guardare il movimento
di quelle ali delicate come se ad ogni boccone spezzassero l’ostia consacrata
per portarla in volo verso il cielo, che neppure si scorgeva attraverso
l’angusta finestra dell’aula, ma che sicuramente doveva esserci da qualche
parte molto più in alto, dove anch’io spesso volavo... Mi piaceva davvero tanto
la signora Carmela, anche come spiegava, e l’amavo perché finalmente capivo e
mi capiva, spingendomi con dolce fermezza ad apprendere. Ed io finalmente
scoprivo che era bello imparare. E l’amai ancora di più quando, incontrando per
caso mamma che era venuta da noi per pochi giorni, le disse che ero una bambina
molto brava e molto intelligente, che imparava subito e scriveva dei compitini
molto ricchi di fantasia e scritti molto bene. Tutti quei “molto” messi in fila
uno dietro l’altro come un “treno lungo lungo” mi esaltarono. Ero brava. Ero
finalmente considerata. Le mie parole avevano finalmente un senso un significato.
E non solo per me. E vidi mamma tutta felice dopo quell’incontro. E mi sentii
felice anche per lei. Frequentavo con la
signora Carmela ormai la terza classe, si era alla fine dell’anno scolastico e
già scrivevo compitini organici e ricchi di fantasia, ma in quarta, con suo
grande dispiacere ed anche il mio, dovetti cambiare scuola perché quella dove
lei insegnava, nel cuore del paese antico, era molto lontana dalla nostra casa,
mentre a poche centinaia di metri c’era la scuola che aveva frequentato Lizia
fino alla licenza elementare. Anche perché la sua maestra, che aveva per lei
una vera adorazione, dovendo insegnare in una quarta (non amava farlo nel primo
ciclo, che allora comprendeva le prime tre classi, perché “c’era troppo da
sgobbare per scolarizzare i bambini”), pretese da mamma che mi mandaste da lei.
Mi considerava già sua alunna. E fu così che mi iscriveste alla nuova scuola e
cambiai maestra. Altro distacco. Altro dolore. Perdevo occhi teneri e
attenti. Parole vibranti e appassionate. Guida sicura per la mia crescita.
Intanto, a ottobre, dell’anno precedente, il
1950, che era stato proclamato da Papa Pio XII “Anno Santo”, era nato l’altro
fratellino. Bellissimo. Lo avevano chiamato come te. (…) Poi, erano andati tutti via e io e Lizia rimanemmo
di nuovo con te e con la nonna. Lizia ora frequentava la prima media e
attraversava da un capo all’altro tutto il paese. Io, invece, solo un pezzo di
via della Repubblica. Prendevamo strade opposte come prima, ma ora avevamo un
maggiore equilibrio nelle distanze da percorrere, commisurate ai nostri anni. La
nuova maestra era l’ossimoro della signora Carmela. Più giovane. Zitella. Più
bassa e tarchiata senza essere grassa. Abbigliamento informale. Modi spicci e
poco ortodossi. Una femminista ante litteram. Fumava le Marlboro e
parlava come un uomo. Spiegava in maniera sbrigativa e ignorava le alunne
provenienti dai ceti diseredati, le più lente e con difficoltà di
apprendimento. A me, nonostante fossi molto alta per i miei anni, fece occupare
il primo banco della fila centrale, proprio davanti alla cattedra, e mi diede
per compagna un’altra bambina molto ordinata e diligente, che ben presto si
sarebbe rivelata la più brava della classe. E fui anche nominata capoclasse.
Avevo, con questo, pure l’incarico di correggere i compiti e di controllare i
quaderni delle mie compagne in difficoltà. In pratica, se da un lato mi sentivo
gratificata per il mio nuovo ruolo, dall’altra persi nuovamente interesse per
lo studio. Venivo mandata spesso di qua e di là nelle altre classi a portare
bigliettini e caramelle alle altre insegnanti e non riuscivo a stare attenta
alle lezioni. Unica esperienza positiva fu, in quinta elementare, una
rappresentazione teatrale della fiaba di Cappuccetto Rosso, per concludere
l’anno scolastico prima degli esami di ammissione alla scuola media (allora non
c’era ancora la scuola media unica, che prese il via in Italia solo nel
1962-‘63. Dopo i primi cinque anni di scolarizzazione gratuita e obbligatoria,
bisognava sostenere il selettivo esame di ammissione per poter proseguire gli
studi oltre la licenza media. I bocciati venivano preparati al lavoro
attraverso il triennio della Scuola di Avviamento Professionale. Una chiara
discriminazione sociale oltre che culturale. Venivano bocciati sempre gli
alunni delle famiglie più povere. Fino a che don Lorenzo Milani, il “prete
scomodo”, come i giornalisti lo avevano definito per le sue polemiche contro
una chiesa conservatrice e autoritaria e una scuola discriminante e
verbalistica, con la sua Lettera ad una professoressa, pubblicata poco
prima della sua morte, nel 1967, in collaborazione con i suoi alunni di
Barbiana, non evidenziò tutte le carenze di una istituzione che “curava i sani
e lasciava morire i malati”).
In quel saggio di fine anno, di cui si
occupava una brava insegnante amica della mia, mi fu assegnata, per via
dell’altezza, la parte della mamma di Cappuccetto Rosso che fu impersonata, invece,
da una vezzosa bimba di prima elementare. Fu un successo. Le repliche si
protrassero per oltre un mese, con un pubblico sempre nuovo e numeroso. Tu e la
nonna venivate quasi tutte le sere. Vi posizionavate ai primi posti per vedere
e ascoltare meglio. La nonna mi permise persino di mettere degli orecchini
pendenti di oro antico con perline e rose di Francia, preziosi e bellissimi. Anche
mamma venne da lontano con gli altri miei fratellini ad applaudirmi. Fu allora
che riscoprii, con maggiore consapevolezza, di essere bella. Quasi tutti i
ragazzini che recitavano mi stavano dietro come cagnolini. Facevano a gara per
accontentarmi in ogni minima necessità o desiderio. Anche Franco, il più bello
del quartiere e appena tredicenne, s’innamorò perdutamente della mamma di
Cappuccetto Rosso, ma di lui riprenderò a raccontarti. Avevo appena undici
anni, ma mi spuntavano ali di felicità nel sentirmi così tanto ammirata e
corteggiata. Mi ripresi tutti i terrapieni dell’anima perduti durante i due
anni in quel nido di case e di silenzi e di lacrime e di solitudine di
montagna. (…). Furono, quelli, gli anni anche delle intense e graduali
letture. Dapprima io e Lizia compravamo i fumetti (Il Corriere dei
Piccoli, Topolino, Intrepido, il Monello); poi, fu la volta dei romanzi di
avventura di Salgàri e Jack London, di Verne e Stevenson; e ci appassionammo ai
romanzi rosa di Luciana Peverelli, Liala, Brunella Gasperini, Delly (dalla
dubbia identità), Pearl S. Buck; infine, imparammo a saccheggiare anche la
fornita biblioteca di babbo che amava gli autori francesi, russi, americani. E
fu amore infinito per i classici italiani e stranieri. La nostra formazione
letteraria e culturale fu, all’inizio, frutto del lungo ascolto delle tue
storie che ci spinse ad amare la lettura nella curiosità/speranza/certezza che
molte di quelle tue parole le avremmo ritrovate nei libri. E per alcune fu
ricerca vana, essendo molte fiabe parto esclusivo della tua fantasia o di
quella più colta di un tuo amico italiano, incontrato in America, che aveva
studiato tanto e ti raccontava ciò che aveva letto nei libri; per altre,
invece, fu scoperta di racconti che l’oralità popolare aveva portato fino a noi
e a Italo Calvino, che li aveva raggruppati e rielaborati nelle sue Fiabe
italiane. Sta di fatto che fosti tu, con i tuoi castelli in aria e
senza saperlo, a inculcarci la passione per la lettura. Poi, furono Teresa e
babbo. Io e Lizia amavamo, dunque, leggere ma, mentre Lizia riusciva a
conciliare l’amore per la lettura con lo studio scolastico perché amava
imparare e amava la scuola ed era sistematica e diligente, senza mai affidare
nulla al caso, io finii con l’ignorare i libri di scuola per dedicarmi
esclusivamente a romanzi e poesie, alla musica e alle canzoni e ai miti
radiofonici di quegli anni. Detestavo la scuola, come ben sai, e studiare per
la scuola. La mia formazione prese subito altre vie più atipiche, divertenti,
scanzonate. Leggevo leggevo molto per conto mio e a modo mio. Dapprima non m’importava conoscere gli
autori, mi piacevano le storie quasi fossero il naturale prolungamento delle
tue, o di quelle di Teresa; poi imparai ad apprezzare lo stile e a scoprire
quello personale dei vari scrittori, romanzieri e poeti. Anche per la musica e
le canzoni la maturazione delle scelte avvenne nello stesso modo graduale:
passai da un ascolto acritico e superficiale delle canzoni italiane al desiderio
di sapere chi suonasse o chi le cantasse. Quali fossero gli autori. Italiani e,
via via, anche stranieri. Con
qualche anno in più, cominciai a notare la diversità dei contenuti e degli
stili nelle varie opere letterarie: la Provvidenza del Manzoni aveva un respiro
più ampio di quella di Giovanni Verga; la prosa di Moravia era completamente
diversa da quella di Bacchelli; le poesie di Ungaretti si differenziavano
notevolmente da quelle di Montale, pur appartenendo entrambi i poeti alla
stessa corrente letteraria… La diversità delle correnti letterarie, mai
studiate a scuola, perché ero sempre distratta da qualcos’altro, le andavo
scoprendo per conto mio, man mano che m’interessavo a qualche autore, di cui mi
piaceva conoscere la vita e la formazione letteraria, culturale e umana. Mi
piaceva scoprire quando come e perché avessero imparato a scrivere così, oltre
al naturale talento che ciascuno possedeva. M’incuriosivano gli aneddoti e le
notizie più che le nozioni. E, se queste ultime non m’interessavano perché erano
appannaggio della scuola, i primi erano frutto delle mie letture e ricerche.
Quando capitava. Come capitava...>. (da: Le
piogge e i ciliegi, I vol.).
E penso che continuerò a raccontare come e
quando tornai a pubblicare altri miei racconti prima di approdare a una
scrittura sistematica e alle prime pubblicazioni di sillogi di poesie e, via
via, di libri in prosa e poesia fino ai romanzi e ai saggi critici. Il lungo
percorso del mio amore viscerale per la scrittura. Per me è davvero bello
raccontare. Spero che sia altrettanto interessante leggere quanto scrivo per
incontrarci tutti sul filo della conoscenza di noi attraverso il dialogo, che
ci porta verso orizzonti sempre più ampi di ricordi, memorie, incontri…
Fondamentale è il confronto. Angela
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