Oggi è un anniversario da cancellare: sono passati tre anni dalla frantumazione delle mie gambe a Belgrado. Una esperienza terribile di cui non dovrei più parlare e invece ne parlo ancora. “La memoria”, qualcuno ha detto, “non è ciò che si vuole ricordare, ma ciò che non si può dimenticare”. E, per quanti sforzi io faccia, non riesco ad archiviare l’accaduto. Ma, paradossalmente, questa data ha un significato altamente profondo di rigenerazione, di ri-nascita, che dovrei ricordare fino alla fine dei miei giorni. Ed è il racconto più inverosimile e più bello che sto cercando di fare nel terzo volume del mio romanzo Le piogge e i ciliegi, perché non se ne perda memoria e lasci una traccia su cui riflettere ai nostri giovani e ragazzi affinché non perdano mai le vie della speranza. Qui faccio solo una sintetica anticipazione, sperando di essere in qualche modo credibile, creduta. Devo fare, però, una premessa, prendendo in prestito le parole del grande Einstein: Ci sono due modi di vivere la vita. Uno è pensare che niente sia miracolo. L’altro è pensare che ogni cosa è miracolo. Io propendo per questa seconda via e vado a spiegare il perché. Certo, non è facile parlare di certe esperienze, vissute nella non piena consapevolezza di sé e, nello stesso tempo, con la certezza di essere pienamente in sé, con una lucidità mai provata prima, nei pensieri all’unisono con il proprio cuore e la propria anima in volo. Non è facile perché, detta così, la frase di Einstein, e scegliendo la seconda soluzione, sollecita quantomeno un sorriso di divertito scetticismo; un “assecondare” con la mimica facciale contrita e compunta per evitare di manifestare il proprio pensiero “poverina, non ci sta più con la testa!”; un mettere le distanze per non pronunciarsi negativamente e non dare un dispiacere alla “poverina che…”.
Per avere allora un minimo di credibilità, occorre andare indietro nel tempo e ricominciare dal “focus” spartiacque del “prima” e del “dopo”: 19 ottobre 2019. Qualche mese prima che si avesse contezza in tutto il mondo della deflagrazione della pandemia da Coronavirus. In pratica, ero in Serbia per la grande Festa d’Autunno a Smederevo, dove due giorni prima ero stata gratificata con un Premio, tra i più prestigiosi in tutti i Paesi balcanici, che coinvolge tanti autori a livello mondiale. Due giorni dopo ero a Belgrado, dove i cari amici serbi, che mi conoscono da quarant’anni ormai, mi aspettavano per festeggiarmi nel Salone del Libro e dove il giorno successivo avrei presentato il mio ultimo libro pubblicato in Serbia. Questo preambolo è importante perché, nell’arco di pochissimi giorni, passai dalla gioia totale alla perdita totale di me. La festa con gli amici fu semplice ma bella e profondamente sentita. Pasticcini e bevute al mio successo e alla mia salute (ironia della sorte!). Verso mezzanotte ci avviamo io e mio genero (che è anche mio editore e mio accompagnatore ufficiale in quasi tutti i miei viaggi culturali in Italia e all’estero) per fare ritorno in albergo. Ci seguivano i nostri amici tutti festosi e un po’ brilli. Dietro di noi il più caro (la nostra assoluta amicizia è durata, inossidabile, dalla giovinezza alla vecchiaia). Sulla lunga scalinata che dal Salone portava giù al parcheggio-auto e ai taxi in paziente attesa, io già al penultimo gradino al braccio di mio genero, lui inciampò, perse l’equilibrio e mi piombò addosso con il suo metroenovanta di altezza e qualche chilo di troppo, frantumandomi in un mare di sangue. Con mio genero che, per mia fortuna, non mi piovve addosso pure lui, come era da prevedersi data la posizione in cui eravamo, ma si ritrovò scaraventato per terra dalla parte opposta, in lacrime, mentre altri amici accorrevano per aiutarmi, chiamare l’ambulanza, col medico che mi suturò lì, seduta stante, alla bell’e meglio gli squarci delle ferite da cui fuoriuscivano le ossa e zampillava a fiotti il sangue. Poi, il ricovero in ospedale, dove fu subito chiara la mia condizione disperata tanto da sollecitare un rientro in Italia, via terra, per un possibile ricovero in un ospedale italiano appena giunti a Trieste. Ma mi precedeva la notizia diramata dall’ospedale di Belgrado sulle mie condizioni disperate e nessun ospedale era disposto ad accogliere una moribonda, accompagnata da un medico e una équipe sanitaria per praticarmi le cure necessarie nel disperato tentativo di tenermi in vita. Dopo 24 ore di viaggio in ambulanza, registrando il rifiuto a Trieste, Belluno, Padova, Bologna… approdammo, come Dio volle, in Puglia e anche qui incontrammo varie resistenze, fino a che non fummo accolti, grazie alla presenza di un caro parente cardiologo, alla Mater Dei, ottimo ospedale al centro di Bari. La Madre del Signore, dunque! E qui, dopo aver constatato le mie condizioni disperate e, con la assoluta meraviglia che fossi arrivata ancora viva, l’équipe dei chirurghi ortopedici, capitanati dal Primario uscente e da quello subentrante, programmarono, immediatamente, i due interventi urgenti per “sistemarmi le ossa” nell’arco delle successive 36 ore. Ma occorrevano almeno sei sacche di sangue che non c’erano, altrimenti non avrebbero potuto operarmi. Poi, non appena il problema “provvidenzialmente” si risolse, immediatamente decisero per il primo intervento. Quando mi portarono in sala operatoria: ben tre chirurghi, compresi i due primari, erano in attesa di operarmi. Ma io ero stranamente semicosciente e serena: nella saletta d’attesa, dove praticano la prima parziale anestesia per addormentare piano piano il paziente, “vidi” intorno alla mia barella i miei cari defunti in preghiera: mia madre, mio nonno (presenza costante e salvifica in tutta la mia vita) mio marito, mia nonna. Poi, in sala operatoria, mi misero dapprima con le braccia spalancate a mo’ di croce e, prima che mi praticassero una seconda anestesia con una specie di pistola solo per la prima gamba da operare, la più “sventrata” dall’acetabolo fino alla caviglia, mentre mi piegavano su un lato con le braccia e mani quasi fossi in preghiera, ebbi il tempo di sussurrare “come Gesù Cristo” e cominciai a sentire i colpi dei martelli, della sega fino ai punti di sutura lungo tutta la gamba. Persi il conto più e più volte degli infiniti punti di suturazione, mentre mi riportavano nella sala del “risveglio” prima di riportarmi nella mia stanza. Fuori dalla porta c’erano i miei figli in spasmodica attesa, ma rimasero meravigliati nel vedermi, dopo un intervento così difficile e complesso, tutta sorridente e felice quasi stessi tornando da una gita in campagna, che aveva dato anche un tocco di rosa alle mie guance. Ma il prodigio più grande e misterioso avvenne due giorni dopo, mentre mi preparavo ad affrontare il secondo intervento all’altra gamba con il ginocchio pieno di frammenti di ossa da recuperare e sistemare Dio sa come. Altri chirurghi ortopedici, altra metodica di intervento. Questa volta con epidurale prima di entrare nella sala operatoria. Nella saletta antistante, appena sistemata nel mio angolo d’attesa, mi sentii salutare con una voce dolcissima e tenerissima “ciao”, mi girai per salutare anch’io ma non c’era nessuno. Chissà perché, però, già sentivo nostalgia di quel sussurro, quasi una urgenza di sentirlo ancora. Mi girai, niente. Possibile che avessi sognato ad occhi aperti? Mi girai ancora e finalmente vidi una infermiera che si era avvicinata alla mia barella per praticarmi una flebo. Le chiesi se c’era già da prima e non l’avevo vista per rispondere al suo saluto. Mi disse di no. Che prima non c’era nessuno. Mi dissi che l’ansia dell’imminente intervento mi stava giocando brutti scherzi, ma intanto avevo bisogno di quel “ciao”, di quella voce, in cui mi sembrò di sprofondare non appena mi sistemarono nuovamente sul tavolo operatorio. Sentii di essere accolta in braccia materne che non erano quelle di mia madre, erano lievi come piuma e mi trasportavano tra terra e cielo. Avvertii un conforto senza aggettivi e una pace infinita, mentre “sentivo” e “vedevo” tutto l’intervento alla moviola. E stavo in paradiso. E avevo voglia di pregare, ma non sapevo più pregare. Da tempo immemorabile non pregavo. Neppure durante il lungo viaggio per giungere fino lì, nei rari momenti di lucidità mi riusciva di pregare. Avevo perso l’abitudine. In quei rari momenti avevo persino firmato gli autografi sul mio libro alle infermiere che mi circondavano, ma non una preghiera. Sentivo solo che stavo per morire ma che non sarei morta. Non “dovevo” morire. Anche questa volta, all’uscita dalla porta, incontrai lo stupore dei miei figli ad accogliermi nel corridoio tanto il mio aspetto era confortante, e il mio stupore nel vederli dall’alto come se vedessi il mondo capovolto. Ricordo indelebile che ancora oggi mi turba molto. E, nello stesso tempo, avvertivo il desiderio struggente di quella voce, che sentivo dentro e che mi sfuggiva, eterea e lontana. I medici parlarono subito di miracolo e si meravigliavano essi stessi di parlare in quei termini e non da scienziati. Sì, furono i primi a parlare di miracolo! Assurdo, ma vero. E non stavo sognando. E neppure i miei, che annuivano con le lacrime agli occhi. “Ma la degenza”, dissero, “sarà molto lunga. Anche se, miracolosamente, pure le sei sacche di sangue preventivate non sono servite. Ne sono bastate solo due”. Strano ma vero e dire che tutto sembrava remarmi contro: le mie gambe completamente frantumate, la irreperibilità in tutta la Puglia, fino all’ultimo minuto, delle sacche di sangue occorrenti per via del gruppo sanguigno 0 rh negativo, che può riceverlo solo dallo stesso 0 rh negativo; allergia agli antibiotici e agli antidolorifici, persino ai cerottini anallergici, ecc ecc. Poi, improvvisamente e provvidamente tutto si era risolto e avevano potuto operarmi senza difficolta. Il giorno dopo, uno dei due primari, quello uscente, venne a trovarmi in camera ancora sconvolto e incredulo. “Lei è un miracolo vivente”, mi disse, “e sono qui, mio malgrado, a testimoniarlo. Improvvisamente ho sentito dentro di me che Qualcuno stava guidando le mie mani durante l’intervento”. Cominciarono così le sue visite quotidiane e le nostre lunghe o brevi “chiacchierate” sul mio caso straordinario che lo aveva portato a recuperare la fede, perduta da tempo, nella presenza di Dio nelle vicende umane. E spesso, mentre mi parlava, vedevo i suoi occhi riempirsi di lacrime. La degenza fu più lunga del previsto per via anche di altre complicazioni al ginocchio destro. Si profilava un nuovo intervento che venne, per fortuna, scongiurato sempre all’ultimo minuto. I medici dovettero ricorrere all’ozonoterapia per curare una brutta infezione al ginocchio. Ma già ero stata trasferita in un’altra struttura privata di igienizzazione a due passi da casa: Oasi di Nazareth. E, ad un tratto, mi tornò in mente la voce dolcissima di fanciulla a dirmi “ciao” e seppi che ero capitata, non per caso, nel luogo giusto. Dalla Mater Dei alla Vergine Maria. E sentii anche che quella voce, mai dimenticata, ma radicata nell’anima, era della fanciulla di Nazareth, sempre Lei, la Madre di Gesù, a proteggermi, a salvarmi.
Solo una considerazione “a latere”:
questo mio racconto non vuole convincere nessuno sulle veridicità di quanto da
me vissuto perché nutro enorme rispetto per le convinzioni altrui, legate a tutte
le esperienze esistenziali che ciascuno vive e di cui fa tesoro come meglio
crede. Desidero solo farne testimonianza in prima persona, perché così è, pur
nella inevitabile incredulità generale, rischiando davvero il ridicolo. Ma sento
la necessità, che va oltre la mia volontà, di farlo per un auspicabile
confronto con chi potrebbe aver vissuto esperienze simili alle mie senza aver
avuto mai il coraggio di parlarne. Parliamone, invece. Ascoltiamoci.
Potrebbe aiutarci quantomeno a sfiorare appena appena l’insondabile il mistero
della vita e della morte. E che dire del sogno ricorrente, fatto da bambina e
poi ripetutosi più e più volte negli anni, che sarei caduta perdendo per sempre
l’uso agevole delle gambe? Predizione avveratasi in pieno! A voi la parola… (continua)
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