E riprendo, dopo una breve pausa, a scrivere. E lo faccio, ricordando innanzitutto la leggenda della notte di San Giovanni, da me vissuta, quando ero ragazzina, nella casa dei nonni. Nonno Mincuccio, o meglio “papà”, come era suo solito, raccontava storie, miti, leggende, aneddoti, ricordi di guerra, curiosità legate alla sua gente, al nostro paese, tra invenzione e realtà.
La notte di san Giovanni, dunque: le mamme delle figlie in età da
marito si attrezzavano con tegamino e pezzi di piombo per scoprire la sorte
delle loro fanciulle in fiore. A mezzanotte il piombo si fondeva prendendo
nuove forme che la fantasia popolare interpretava, un po’ aiutata dalle
speranze, un po’ guidata dalle attese. E così il piombo diventava un carretto,
un berretto con fregio, una penna con fogli e calamaio, e così via.
Papà e mamma raccontavano sempre che a lei erano apparsi
miracolosamente fregi delle giubbe dell’arma dei carabinieri con altri oggetti
che definivano meglio il personaggio dell’imminente incontro: un brigadiere dei
carabinieri “in carriera”. Cosa che avvenne puntualmente. E quando anch’io
raggiunsi i miei sedici anni, fu proprio mamma che, per scherzo e per riderci
su, ripropose il rito magico che si risolse in tanti pennini, pennelli, fogli
volanti, disegni. “Non è molto chiaro il verdetto, ma mi sembra che sarà un
professore o un pittore”, disse poi lei, piena di dubbi e nessuna certezza. Ma San
Giovanni non aveva fallito neppure questa volta. Primo, il mio futuro marito, è
stato professore, scrittore, poeta e pittore. Scriveva storie e poesie
bellissime e dipingeva quadri suggestivi e avveniristici. San Giovanni e il suo
misterioso intervento nelle faccende più umane che divine.
Ma il rito, col trascorrere degli anni, non ebbe più luogo per
mancanza di tempo, di piombo e di tegamino. Le mie figlie, ben tre, hanno
provveduto da sole a cercarsi un amore momentaneo o per tutta la vita. E a me
oggi non rimane che ricordare con un pizzico di nostalgia la semplicità un po’
misteriosa e misterica del tempo che fu.
E, intanto, nella nostra famiglia è entrato oltre una trentina di
anni fa, una persona di tutto rispetto di nome Giovanni, l’attuale marito della
mia amatissima sorella Anna Maria, dopo anni di lutto e vedovanza per la
perdita a soli ventisette anni del suo grande amore Nicola, che le aveva
lasciato in dono due bimbe a cui aggrapparsi per non naufragare in un oceano di
dolore. E Giovanni, detto Gianni, si è preso cura negli anni di lei, delle due
ragazzine e dei loro figli, come un vero padre e nonno. Anche di più. Gianni è,
a sua volta, scrittore e poeta. In questi ultimi anni ha scritto due romanzi
molto forti (un vero e proprio pugno nello stomaco) sulla violenza, insita in
sordina in ciascun essere umano fino alla sua improvvisa esplosione per via di “un’onda
d’urto” imprevedibile ma inscritta nel “codice segreto” di ciascuno di noi,
risalente persino al suo DNA. Gianni è ora alle prese col terzo volume di
questa trilogia che sicuramente farà molto riflettere i suoi lettori, ma
intanto scrive anche fascinose poesie, compresi due poemetti di tutto rilievo. Il
primo CENERE, ispirato a Le ceneri di Gramsci di Pier Paolo
Pasolini, un poemetto anch’esso scritto di getto, e riproposto tra gli anni
Cinquanta-Cinquantasette del secolo scorso, dopo la visita nel cimitero
acattolico di Roma; il secondo IL TUO
NOME! è più recente.
Alcuni mesi fa feci un commento critico a CENERE, che probabilmente qualche mio lettore ricorderà, oggi
desidero fare dono a Gianni del commento critico de IL TUO NOME!, un poemetto che mi ha colpito molto per diversi
motivi. E Gianni, ancora una volta, per il suo onomastico, merita tutto questo.
IL
TUO NOME!:
Già il punto esclamativo, così insolito in un titolo, offre un primo suggerimento
verso qualcosa di o estremamente positivo o estremamente negativo. Immediatamente,
però, il negativo si dipana dai versi successivi, tutti improntati a
espressioni come “dannato nome impudente/ inafferrabile”, “verde iguana”, “la
strada dei fanali spenti, ma non mi accompagnava la luna”.
La luna abbacinata di Garcia Lorca e il suo tormento (“Dice la sera: ‘Ho sete d’ombra/ Dice la
luna: ‘Io ho sete di stelle!’/ La fonte cristallina chiede labbra,/ sospiri
chiede il vento...), “C’era solo ombra sul mio volto”. Ma la luna trasformò
la notte lontana in una “pazza alba dorata” (e Lorca è ancora qui con il suo “canto
luminoso… vergine di sogni”, con la sua “luna dei gitani” tra danza e coltelli
di rose e spine contro i venti che sanno l’alba dorata e tramonti di fuoco).
-
D’oro era il
suo volto ai raggi,/ e fiammanti, di febbre, gli occhi -
-
Mi chiese
(tirandomi con forza)
“Andiamo piccolo passero, la strada
è lunga, i fanali sono spenti, e una donna
non può andar da sola
per una strada di bugiardi e ruffiani”.
Scrive Gianni Brattoli. Come non avvertire in questi versi (“tirandomi
con forza”) l’inganno ordito ai danni del “piccolo passero” come trama di rete
di ragno lungo una strada di “due bugiardi e ruffiani”? Ma “la notte cantava e
cantava il suo corpo, e tutto il resto passava lontano”: la rete è lanciata ormai
e niente e nessuno può distrarre il ragazzo da lei, la donna non più fanciulla,
dal suo “corpo, avvolto di seta, e i
fianchi cinti d’argento, era più luna della luna”: sono versi incantevoli
che raccontano intensamente la suggestione ammaliatrice di quel corpo “più luna
della luna”… E i versi che seguono ci immergono nell’atmosfera sognante vissuta
dal piccolo passero fino a “soffocargli il respiro, rendendolo incapace” di un
solo gesto, di un azzardo, preso nel vortice del perfido gioco, che si conclude
nei pressi di una “villa fiorita”, dal profumo inebriante, stordente. E qui lei
offre la sua nuca e i suoi fianchi perché lui la faccia prigioniera contro i
cancelli: “priogioniera” e “cancelli”, due parole che hanno sapore strano di assenza
di libertà, di coercizione e di forza. Di nuove trame e nuove spire a soffocare
la esplosiva passione del piccolo passero, divenuto improvvisamente, in tutto
quel silenzio soffocato, “uccello da preda”. E insieme varcarono “il confine” della
casa vuota, della cintura di seta (ancora Lorca e i suoi versi incantati: Potessero le mie mani sfogliare la luna),
dell’indumento più intimo che una donna possa lasciare andare nelle mani dell’uomo
che la possiede. Il resto fu “a un passo
dalla follia”, che “non può essere
raccontata”. Poi, la calma, il rivestirsi lento e delicato, quasi un’intesa
che presto si sarebbe rivelata un duplice inganno: “l’uccello da rapina” aveva
conservato l’indumento intimo quasi fosse testimonianza della sua “preda” e la
piazza vuota e deserta che li attendeva, dopo aver lasciato cancelli bui e
silenziosi, aveva come unico spettatore il marito di lei, complice di… sua
moglie, ad attenderli al varco, per motivi ignobili, noti solo a loro due. Al ragazzo
non rimase che il sapore amaro dell’inganno, mentre si allontanava con un
coltello che sanguinava di dolore solo nelle sue mani, e pensava che la
sconfitta era dei “due punti neri sullo
sfondo di una piazza grigia”.
Poi, “tornando sui miei
passi, aprii la lama del mio coltello/ e di quell’indumento/ ne feci tanti
piccoli pezzi/ che abbandonai alla brezza notturna// alla luce della luna/
apparivano come piccole farfalle/ svolazzanti su un prato.// Non l’ho più
incontrata,/ ma ripercorrendo quella lunga strada, “di ruffiani e bugiardi”/
cercai, lungo il marciapiede,/ farfalle bianche in volo.
E la poesia vince l’inganno, l’amarezza, il silenzio e… persino la
malinconica follia della luna…
Una storia amara d’altri tempi che oggi forse avrebbe risvolti
diversi…
E domani è un altro giorno… forse si può ricominciare… confido
nella Speranza più che nell’attesa…
La notte di San Giovanni docet!
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