Maggio è il mese che amo di più. A fine maggio sono nata tanti anni fa e i ricordi di un tempo lontano si riaffacciano alla memoria anche attraverso i romanzi che ho scritto e in cui spesso ho parlato di me, in una sorta di autobiografia romanzata in cui il fulcro di ogni mia esperienza è stato sempre il “nodo d’amore” che dalla nascita ai nostri giorni è stato il protagonista assoluto dei miei romanzi, racconti, poesie: mio nonno Mincuccio.
Dai
due volumi dell’ultimo romanzo a lui dedicato, Le piogge e i ciliegi (è in cantiere il III volume a chiudere la
trilogia), riporto i seguenti ricordi:
“In
primavera, poi, con lo splendore della natura che esplodeva d'erba, di
pratoline e di fiori di campo, tu andavi a casa dei nostri tanti amici e li
invitavi a venire con noi in campagna all'alba del giorno dopo. Molti venivano
in bicicletta, altri salivano sul traino con noi. E il cielo era un ricamo
d'alberi. L’alba spegneva le stelle e vinceva lentamente il buio, rischiarando
i nostri occhi spalancati di stupore su quella natura rigogliosa e ricca di
frutti. Le nostre labbra chiacchierine si confidavano, in bisbigli d'intesa,
confidenze di amori appena nati. Nel campo dei ciliegi sciamavamo tra i rami e
tu, appena di ritorno, vestivi a festa il nostro quartiere con ceste di rossi
frutti che distribuivi in tutte le case. E le case si accendevano di colore e
di allegria: adulti e bambini si riempivano le mani delle accese ciliege,
raggruppate dai lunghi gambi e ricoperte dalle verdi foglie
(ciliegie di maggio ciliegie d’assaggio
ciliegie di giugno ciliegie a pugno…)
Già
da bambina avevo imparato quel rito festoso che salutava di gioia la nostra
primavera...
(sì bbéddə
accòmə a ‘na cəràsə…) (sei bella come una ciliegia…)
Lungo
le strade le ragazzine, con quelle lampade accese ai lobi delle orecchie,
cantavano la spensieratezza dei loro pochi anni, dilatando lo spazio angusto
tra quelle case antiche, dove il cielo era un lungo rettangolo blu definito dai
terrazzi anneriti di tempo e di impervie stagioni...
Questo
è il tempo delle ciliege,/ le ciliege si vanno a cogliere,/ si vanno a cogliere
ad una ad una,/
questo
è il tempo del primo amor...// La cintura stretta stretta/ e la gonna larga
larga,/ le scarpette a punta a punta:/ io ballerò con te.../ Io danzerò con
te...// Questo è il tempo delle ciliege,/ le ciliege si vanno a cogliere,/ si
vanno a cogliere col panierino,/ questo è il frutto del mio giardino...// La cintura
stretta stretta/ e la gonna larga larga,/ le scarpette a punta a punta:/ io
ballerò con te.../ io danzerò con te...
Divenuta
ragazzina anch'io, adoravo quelle ciliegie: rosse, dolcissime, morbide,
profumate
(cerasèlla cerasé/quànnə è tìmbə də cəràsə/ tu mə dai
tre o quattə vàsə/ cərasèlla cərasé/ quànnə è tìmbə də limónə tu m’assàssə ‘nu
scəcaffónə… Nunzio Gallo e Aurelio Fierro cantavano).
Le
ciliegie erano per me quasi labbra baciate di donna innamorata e amata (“Labbra dal disìo baciate”, come avrei
letto e scoperto più tardi).
E,
poi, via via, fioroni e gelsi e nespole e prugne e fichidindia. Grosse ceste di
uva matura e dolce da scaldare l'anima. “Spórtə”
(panieri stretti e profondi di sottili sarmenti d’ulivo intrecciati), “spərtéddə” (panierini), “scəchəcchəmarùzzuə” (recipienti piccoli
piccoli, per la gioia delle mie manine), di olive verdi e brune da fare in
salamoia o con la calce oppure da far scoppiare nel tegamino o sotto la cenere
e da mangiare col pane fra boccali del tuo ottimo vino e, per quegli anni,
insolite risate. C’erano più frutti che
fiori allora nella nostra casa a colorare e a profumare i giorni.
Ma ora ho fatto un salto temporale dovuto alla
memoria che non sempre segue il tempo nella sua cronologia storica. E non
sempre riporta alla coscienza collegamenti di esperienze nel loro susseguirsi
esistenziale. Irrompe così all’improvviso e accende l’occhio di bue su un
volto, strimpella l’assolo di una voce, riempie una strada di ciliegie. Occorre
allora ricucire il prima e il dopo
perché nulla sfugga alla fiaba e alla storia. Occorre tornare indietro e
ripartire dal mio primo giorno di vita e dalla casa in cui ho incontrato per la
prima volta le tue mani, la tua voce. Era una casa a più piani che si
arrampicava fino al cielo in un incrocio di strade antiche: via Maggiore,
angolo via De Rossi…
Al bel
tempo di maggio le/ serate si fanno
lunghe; e l’odore del fieno/ che la
strada, dal fondo, scalda
in pieno/ lume di luna, le allegre cantate/ dall’osterie lontane,
e le risate/ dei giovani in amore, ad un/ sereno/ spazio aprono porte e petto… (Giorgio
Caproni, stralcio della poesia “Maggio” da Tutte
le poesie, Garzanti, 1983).
In
quella casa ad angolo che desiderava il cielo nacqui io un bel po’ di anni fa.
E subito mi accolsero le tue mani, le tue braccia. Forse già le tue parole.
Babbo
non mi vide nascere
Era partito in guerra ai primi di maggio in attesa che anch’io
entrassi a far parte del vostro mondo per scoprire la casa e le tenerezze
familiari in un tempo di pensieri bui più della notte, ma io in quel mondo di
ali d’acciaio e di volti di paura forse mi rifiutavo di entrare e per questo
tardai a nascere: di sera e solo alla fine di quel mese di rose di ciliegie
piogge e lacrime.
Era de maggio e te cadeano nzino/ a schiocche a
schiocche li ccerase rosse,/ fresca era ll'aria e tutto lu ciardino/ addurava de
rose a ciente passe./ Era de maggio; io, no, nun me ne scordo,/ na canzona
cantàvemo a doie voce;/ cchiù tiempo passa e cchiù me n'allicordo,/ fresca era
ll'aria e la canzona doce./ E diceva: «Core, core!/ core mio, luntano vaie/ tu
me lasse e io conto ll'ore,/ chi sa quanno turnarraie!»/ Rispunneva io:
«Turnarraggio/ quanno tornano li rrose,/si stu sciore torna a maggio,/ pure a
maggio io stonco ccà»./ si stu sciore torna a maggio,/ pure a maggio io stonco
ccà». (...) (“Era de maggio”, stralcio della
canzone cantata da Roberto Murolo).
In ogni
attimo della mia/nostra giornata Tu
Eri
il pendolo dell'alba e le prime ombre del tramonto, il coltello per tagliare il
pane e la bottiglia e l'imbuto per travasare il vino. Eri la capriola tra le
tue braccia e il cavallo che ti portava via, le voci dei tuoi uomini confuse
con i respiri dell’alba e il cauto risvegliarsi delle strade. Il richiamo al
nuovo giorno e alla vita.
Eri i tuoi campi i tuoi ciliegi
Le
nostre suppliche:/ “ci porti con te in
campagna?”/ e la tua risposta:/ “quando
matureranno le ciliegie”.
Eri la nostra attesa delle ciliegie
Eri
le ore trascorse tra gli alberi, le stesse ore senza di te nella nostra casa
che si riempiva ugualmente di te, di foglie nuove e solchi appena arati, di
gemme attese dopo il lungo inverno, dell'ansia dei primi frutti perché il tempo
delle ciliegie fosse una realtà (i tuoi racconti quando tornavi e ci mettevamo
a tavola per mangiare e per ascoltarti).
Poi, ecco il mese mariano, questa volta preso dal romanzo La via delle vedove (Secop, 2013):
“Sua nonna, in occasione del ‘mese di maggio’, dedicato alla Vergine,
allestiva un altarino nel salotto, con vasi di porcellana, dove metteva le rose
del suo giardino e candelieri d’argento con le candele che accendeva non appena
le vicine di casa arrivavano per recitare il rosario e le preghiere alla
Madonnina con la veste bianca e il mantello celeste e una espressione
celestiale sul volto minuto e affilato. Con tenero sorriso la Vergine ascoltava,
prima del Salve Regina e della Litania di tutti i Santi, una lunga
sequela di requie metèrna dona a jìss
Domine… e réque e scatte in pace. Amen.
Nonna Sabellina non dimenticava mai nessuno. Partiva dal suffragio
ai suoceri (per rispetto), poi ai suoi genitori (per amore); continuava con la
preghiera al santo patrono (per devozione) e al santo del giorno (per
ringraziamento); poi, ancora, al santo dell’ipotetico giorno della propria
morte e della morte di suo marito e di tutti i presenti (per propiziazione). Si
ricordava infine delle povere anime abbandonate e di quelle che nessuno
ricordava nelle proprie preghiere… e a nulla erano valse e valevano le proteste
quasi quotidiane di nonno Antonuccio che ripeteva che le anime abbandonate e
quelle per cui nessuno pregava erano le stesse. Nonna Sabellina continuava imperterrita
fino allo sfinimento, ricordandosi di tutti i defunti dell’intera umanità:
passati, presenti e futuri. Per fortuna, zia Angelina interrompeva spesso e
volentieri tutte quelle preghiere per argomentare a modo suo sui fatti del
giorno e, ad ogni fine periodo, concludeva con ‘che la quale, basta’ e si
sentiva tutta fiera della capacità convincente del suo eloquio, sicura di fare
bella figura col suo italiano laddove tutte si esprimevano in dialetto, sapendo
che persino a scuola la lingua dei ‘cozzali’ prima (il dialettaccio dei vecchi
contadini) e quella de ‘ r artiìre’ poi (il dialetto ripulito perché usato
dagli artigiani che avevano bottega in paese e non si mescolavano con i lavoratori dei campi) erano ormai bandite perché
bisognava a tutti i costi parlare in italiano… (continua)
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