E oggi mi sembra giusto portare alla vostra attenzione, amici carissimi, Francesca Palumbo e la sua Poesia. La nostra conoscenza risale, se non ricordo male (la memoria purtroppo mi fa continui attentati), a parecchi anni fa, ospiti entrambe del Salone del Libro di Torino, una vetrina meravigliosa per tutti quelli che hanno la passione della scrittura e della lettura. Io in qualità di scrittrice e poetessa, lei appartenente allo straordinario gruppo degli uomini-libro che recitavano a memoria interi passi di libri per salvarli dalla distruzione di una società sempre più alla deriva, come accade nel film Fahrenheit 451 (1966) di Francois Truffaut, tratto dal libro omonimo di Ray Bradbury, in cui, in forma romanzata, si parla di una società distopica, in cui i libri sono proibiti e sistematicamente bruciati. Entrambe, dunque, amanti dei libri da scrivere e da leggere. Il mio editore Peppino Piacente, della SECOP Edizioni di Corato-Bari ha incontrato quest’anno Francesca proprio al Lingotto di Torino, in veste di autrice di un nuovo libro Le ore invisibili, dopo i romanzi Il tempo che ci vuole (2010), Le parole interrotte (2015), La tua pelle che non c’è (2018), Hai avuto la mia vita (2021). Per queste opere, tutte pubblicate con la Casa Editrice salentina Besa-Muci, Francesca ha ricevuto prestigiosi premi.
Francesca Palumbo è, però, nata a Bari, dove ancora oggi
lavora come Docente di Lingua e Letteratura Inglese, e dove ha fondato la
Piccola Scuola di Scrittura Creativa e Autobiografica INCIPIT. “Scrive articoli
e recensioni per riviste online e giornali locali”.
A me è pervenuta in dono, tramite Peppino, la sua ultima
silloge poetica Le ore invisibili, appena
pubblicata con una dedica bellissima: Ad Angela con immenso affetto e stima. Francesca.
Ho immediatamente letto il libro e, altrettanto immediatamente, ho sentito l’impulso
di scrivere qualche mia riflessione, in veste di recensione, che qui trascrivo:
<Ho tra le mani la silloge poetica di Francesca Palumbo Le ore invisibili (besa/muci editore,
pp. 141, 16,00 £). Francesca, nel presentare il suo libro dice: “Ogni Poesia è
un piccolo atto di fiducia nell’enigma”. Che ben presto, a mio parere, si fa
mistero. Già il titolo è di per sé misterioso nella sua imprendibilità. Le ore
sono una nostra convenzione per scandire il tempo di un giorno e quest’ultimo
nel tempo di un anno e via via nel tempo senza tempo dei millenni fino all’aurora
del mondo. se, poi, alle “ore” aggiungiamo “invisibili”, il mistero s’infittisce,
reclama una dispersione totale del reale in funzione di ciò che reale non è. l’invisibile
alimenta la contraddizione del “non è” rispetto a ciò che è. E nella contraddizione
e di contraddizione vive e si nutre la poesia di Francesca, ma non solo. Anche la
stessa immagine di copertina esprime una materia duttile, accartocciata, che
sovrappone il non essere all’essere. È un oggetto materico indubbiamente, ma è
soprattutto qualcosa che si aggroviglia come il nostro pensiero mai stanco di
pensare ed è già qualcosa di volatile, che occupa la nostra mente, e ci
impedisce di vedere, in tutta la sua realtà, la materia in bianco e nero che inizialmente
si offre al nostro sguardo. Luci e ombre contemporaneamente. E la luce appare
scontornata dalle ombre perché appaia in tutta la sua pienezza che rischiara il
buio dentro e fuori di noi. In questo caso, dell’Autrice.
Non così l’immagine del retro-copertina a colori solari molto
forti, il girasole ne è l’emblema contro il volto della poetessa, che ha occhi
chiusi, quasi ebbri di sole, per inspirare luce, calore, profumo, i quali, a
loro volta, si infiltrano tra i capelli scompigliati dal vento, come grano
maturo, dimentico dell’azzurro della veste che pure è e scompare. Il tutto è
meravigliosa sintesi della poetica di Francesca, che vive di opposti e si nutre
di contrasti: desiderio e rinuncia, Arte come aspirazione al bello e al vero (“A
verità condusse poesia” dice Clemente
Rebora, poeta mistico dei primi del Novecento) e, nello stesso tempo, un
franare negli abissi di una discesa senza fondo e senza senso (vedi Poesia “E
se li senti” a p. 11). C’è sempre un qualcosa, dunque, a interrompere la
meraviglia che nei suoi occhi si dipinge ogni volta che è rivolta a guardare il
cielo, a ricordare un amore, a scolpire un sogno. Succede in “Meteo” e in tante
altre poesie in sospensione tra terra e cielo: Avere il cielo come tavolino/ bere il caffè/ guardare in su./ Sfogliare
app/ meteorologica degli umani/ ansia/ umori/ paure/ e altri uragani.
Ascoltare la musica interiore e quanto meglio un poeta possa
fare per appropriarsi del linguaggio materno che pulsa nel suo cuore e imprime
uno stile tutto suo e tutto nuovo ai versi. Franco Buffoni, uno dei più grandi poeti contemporanei, ne parla
con cognizione di causa e commozione. Anche Vittorino Curci, nei suoi “Quaderni
dell’Arte poetica”, afferma la stessa necessità: di appartenenza, ma anche
di estraneità al testo. L’appartenenza fa casa, protezione, solidarietà, il
prendersi cura dei luoghi e delle persone; la distanza significa non trattenere
per sé il verso, ma lasciarlo andare incontro agli altri e, in primis, al
lettore, ultimo destinatario e depositario della parola scritta.
Ecco un esempio con “Intorno”: Giorni così/ che passano ignari/ del nulla e del tutto/ che fa
quotidiano./ Protesa/ verso il mutare delle nuvole/ ondeggio/ animata da un
fervore calmo./ Tutto tace intorno. E gli ossimori ancora una volta
tracciano la contraddizione, di cui Simone
Weil ha teorizzato l’importanza e la necessità perché essa evita le
definizioni immutabili, crea spazi di possibilità e “il contatto con l’inesprimibile”,
che, a sua volta, realizza il superamento della nostra “finitudine”, raggiungendo
gli spazi della “mistica”, come era nelle corde della Weil, che pure era
partita dalla logica e dalla matematica.
In sole tre sezioni (Pensami
qui, Calcolabile umano, Clessidra dei giorni) emergono solitudini e
rimpianti, ricordi e nostalgie, rifiuti e attese. Gioia di Esserci nel qui e
ora, prossemicamente, come ci suggerisce Heidegger,
e stanchezza di essere in una identità mai vera mai falsa, ma sempre
consapevole di sé nella sua interezza di umanità non solo alla deriva, ma sulla
riva di ogni riverbero di sé e del sé. Una percezione che mai l’abbandona. E che
la rende fragile e forte. Rammemorante. “Incrociavamo le dita”: Se mai dovesse capitarti di immaginare/ una
più netta perfezione/ se mai dovessi provare/ un freddo così intenso/ da non
ritrovarti/ se mai dovessi scoprire che niente più riscalda/ quella parte del
tuo petto/ sistemata lassù/ a sinistra/ recupera ti prego/ unica immagine salda/del
nostro immenso mancare./ Incrociavamo le nostre dita un tempo/ e così
restavamo/ per ore./ Sempre ripetevamo quel gesto/ senza saperne/ lo splendore.
Versi insoliti, nuovi, vibranti e umbratili insieme, riassumono
la cifra stilistica di Francesca Palumbo, che meritatamente
si è fatta ampio spazio tra le giovanissime voci protagoniste del terzo
Millennio, che già percorriamo non senza devastanti timori per la nostra
umanità alla deriva, ma con un filo i Speranza che sempre ci salva (Spes ultima Dea)…
Ma, poi, ecco “Molliche”: Dire
sì al desiderio/ e ancora ancora/ col dorso della mano/ strofinarsi le labbra/
ripulirle dai baci/ che furono fuoco/ per sfiorare parti disperse/ di te e di
me/ sparpagliate tra le nuvole/ e i sassi/ e i sentieri./ Ti seguo/ anche nelle
foreste buie/ e intanto/ semino molliche.
Con le profonde tracce salvifiche del suo desiderio di
tornare al cuore, unico ardimento e tormento a cui non si può sfuggire…
E anche oggi chiudo qui, con la speranza/certezza di avervi
coinvolto nei versi così intensi e veri, nella loro imprendibilità, di una
poetessa, nella cui gioia e nel cui dolore, ciascuno di noi non fa fatica ad
immergersi e a riconoscersi. Grata sempre. Angela/lina
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