E riprendo con le parole di Giacometti: (Chi è stato
così eroico da arrivare fin qui si sarà chiesto come mai, dopo aver dichiarato
fin dall’inizio l’intenzione di voler svolgere delle riflessioni sul libro di
Krenak da compositore e da educatore musicale, in queste pagine non abbia mai
parlato di musica, né l’abbia mai citata, neppure marginalmente. Vero. Eppure,
la musica c’è, in queste pagine, perché scorre sottotraccia senza che il
lettore se ne accorga: scorre sotto l’intenzione stessa di affrontare una
tematica tanto complessa con la consapevolezza di possedere la forma mentis
adeguata e una visione delle cose che si è plasmata attraverso l’esercizio
costante e continuo della creatività, attraverso la ricerca delle soluzioni
meno scontate, delle spiegazioni non banali.
Come già ho avuto occasione di ricordare, in un periodo
storico nel quale sembra che tutti abbiano il diritto di pontificare su tutto,
procurandosi la propria tribuna, possibilmente anonima e nascosta, la
complessità dei problemi che assillano il mondo in cui viviamo esige
riflessioni e risposte altrettanto complesse, cioè stratificate e internamente
dialettiche. In tal senso, un’educazione musicale precoce e mirata alla
sperimentazione e alla comprensione dei meccanismi che sottendono l’atto
musicale può attivare nelle nuove generazioni quell’attitudine al pensiero
complesso, capace di condurre, nel tempo, ad un cambio di paradigma nel modo di
affrontare situazioni e prospettive. (…). Ecco. Di una complessità
creativa abbiamo disperatamente bisogno, in questa congiuntura epocale, e di
una creatività complessa (…). In più, l’aspetto collettivo del
far musica insieme abitua alla socializzazione, alla cooperazione e ad un
sentire empatico che aiuta a vedere il mondo con gli occhi degli altri, a
condividerne le sofferenze, a progettare insieme un mondo migliore.
Se vogliamo realizzare il sogno della terra di Krenak,
dobbiamo essere abituati a sognare e a plasmare il sogno in materia vivente, ed
essere pienamente consapevoli della sua complessità.
La musica c’insegna a costruire sogni in continua
trasformazione, narrazioni multiple, interazioni continue tra natura e cultura,
tra astrazioni ideali e materia concreta.
E finché avremo la possibilità di raccontare una storia,
rimanderemo la fine del mondo).
E la più bella, creativa, complessa storia ce la lascia in
eredità proprio Giacometti, il quale è impagabile anche nei RINGRAZIAMENTI
conclusivi, che vale la pena di riportare.
(Ringrazio infine, ma non da ultimi, tutti gli esseri viventi,
umani, animali e vegetali, che quotidianamente combattono per non essere
estinti, per non essere gli ultimi, per non essere il non essere di cui la
nostra civiltà malata si nutre per rimanere in piedi, nonostante gli scossoni
del clima e un flusso di coscienza che sta andando dalla parte opposta, quella
della solidarietà vera e disinteressata, della rinuncia all’autoaffermazione
economica e sociale in favore della parte più oscura e sofferente del pianeta).
È di uomini così che abbiamo disperatamente bisogno, oggi
più che mai.
Necessarie, pertanto, le mie conclusioni: Antonio Giacometti
accende il buio di questa società alla deriva come Faro luminoso
nell’imprendibile (in)consistenza del nostro tempo per restituirsi alla memoria
che, in fondo, è il nostro futuro capovolto. E, infatti, la sua
formidabile memoria ci restituisce continuamente l’Esistenza nostra
e degli altri. Anche di quelli che apparentemente non lasciano traccia, come
è possibile scoprire nelle parole del grande Evtushenko:
Non esistono al mondo uomini non interessanti.
I loro destini sono come le storie dei pianeti.
Ognuno ha la sua particolarità, non ha un pianeta che gli
sia simile. (…)
Ognuno ha il suo segreto mondo personale.
In quel mondo c’è un attimo felice.
C’è in quel mondo l’ora più orribile,
ma tutto ci resta sconosciuto.
Quando un uomo muore,
muore con lui la sua prima neve,
e il primo bacio e la prima battaglia…
Tutto questo egli porta con sé. (…)
Certo, molto è destinato a restare,
eppur sempre qualcosa se ne va.
È la legge di un gioco spietato.
Non sono uomini che muoiono, ma mondi. (…)
Gli uomini se ne vanno….
e non tornano più
Non risorgono i loro mondi segreti.
E ogni volta vorrei gridare ancora
contro questo irrevocabile destino.
(E. A. Evtushenko, stralci da “Uomini”)
Ma, secondo me, oltre “l’irrevocabile destino”, c’è una
possibile rinascita. Per “risorgere” bisogna rimanere vivi nella memoria di chi
ci ha amato, ci ama. Prima, però, è necessario che chi ci ricorda rimanga egli
stesso vivo. Nella consapevolezza di sé e del proprio passato.
Per questo, io, ritengo che “risorgere” significhi
soprattutto universalizzare la propria esperienza di vita. Soprattutto nella
sua IMPERFEZIONE e nei suoi ERRORI perché questa è l’UMANITA’ più
vera, individuale e universale. Ed è quest’ultima che rende la nostra
storia privata di tutti. Soprattutto quando fa male perché ognuno può ritrovare
sé stesso in quella ferita. In quel pianto. Che è tanto più vero quanto più ci
appartiene e appartiene alla gente che si dibatte in mille contraddizioni e
difficoltà, e si riconosce nelle qualità e nei limiti, nelle conquiste e negli
errori, nell’ideale di quello che vorrebbe essere, e nel reale di ciò che è. E
i ricordi servono anche a questo. A darci la nostra giusta dimensione nel tempo
e nello spazio.
Antonio Giacometti lo ha “segnato” in noi con la sua anima
che non conosce confini, oltre il disincanto. In lui volti… voci… richiami… In
una scia-traccia di luci-ombre-luci… senza fine…>.
Ma io l’altra sera non ho letto tutto questo che i lettori troveranno
sul Libro, ho raccontato altro a partire dalla suggestiva copertina, opera di
mio nipote Nicola Piacente, talentuoso Graphic Designer della
nostra Casa editrice, che si è inventato il riflesso rovesciato delle lettere
del titolo, quasi fosse un cielo capovolto o, meglio, ribaltato come se si
riflettesse in uno specchio. Mai vero, mai falso e per questo imprendibile,
cioè non incasellabile in uno schema ben preciso e definitivamente connotante.
Il riferimento è al Saggio e al suo Autore. Un artista sfugge sempre alla
prevedibilità, perché la creatività lo porta, oltre ad incontrare l’altro da
sé, in cui riconoscersi senza mai appropriarsi di sé e del sé, anche a
incontrare gli altri a sempre più vasto raggio. Ma anche nel piccolo mondo che
gli appartiene perché noi, come ha detto molto bene Nicola Pice, ci specchiamo
nella pupilla di chi ci è di fronte. Ed io ho ricordato la meravigliosa teoria
dello sguardo e del “volto dell’altro”, del filosofo francese Emmanuel
Lévinas di origini ebraico-lituane (vedi Wikipedia). Ebbene, io esisto
perché l’altro mi vede, come tutto il mondo esiste perché c’è il nostro sguardo
a dargli vita, consistenza, conoscenza. Nulla esiste al di fuori del nostro
sguardo. Anche lo psicanalista e psichiatra francese Jacques Lacan ne
parla, affermando la teoria dello sguardo riflesso in uno specchio a
restituirci una visione doppia di noi.
Il titolo, poi, parla del viaggio in “senso reale” di
spostamento (e dunque di movimento, lo spostarsi, l’andare verso una direzione
e non verso un’altra, e ciò già sottintende di per sé una scelta, una
consapevolezza di sé - più volte citata dall’Autore - e una consapevolezza di
tutto ciò che è diverso da sé e che comunque connota l’uomo come essere
appartenente alla natura, per cui quest’ultima deve essere difesa e non ferita
sistematicamente, come invece stiamo facendo con incoscienza, superficialità,
cupidigia del dio denaro) e in “senso metaforico” come significato globale
della vita. Qui è ipotizzabile anche un ritorno di Antonio Giacometti per
ritrovare sempre e comunque le proprie radici, dopo tanto andare e tanto
restare nell’incanto della foresta amazzonica brasiliana rigogliosa di verde
splendore, in cui si diramano sogni e impulsi frastagliati di nuova vita. La
foresta amazzonica, del resto, è zampillante d’acqua sorgiva e di cascate che
danno spazio a innumerevoli suggestioni e flussi di luce che rivivono nelle
parole ammirate di Antonio e creano in lui “la coscienza della parola che dalla
stessa coscienza viene avvolta”, come alcuni anni fa mi insegnò un amico
carissimo e fedele lettore del nostro blog, Peppino Sblano, un uomo
eccezionale per statura etico-spirituale e per nobiltà di pensiero
storico-letterario.
Poi, c’è il retrocopertina, nella cui immagine si avverte il
silenzio, silenziosamente infranto da una profonda, sotterranea, imprendibile
eppure reale, musica, mentre un’indigena sottolinea la quotidianità del suo
lavoro, sollevando però lo sguardo e le braccia al cielo… Ma tutto questo
diventa ancora di più incantevole attraverso la documentazione fotografica che
occupa alcune pagine del Libro tra il verde e l’azzurro. Uno stupore di
cielo-mare-terra che si perde nell’infinito e si ripropone nel finito di ceste
colme di farine diverse, mentre gli alberi si stagliano a metà tra il finito e
l’infinito. Altra reale e surreale metafora della nostra vita. Noi alberi con
profonde radici a succhiare linfa dalla nostra madre-terra e braccia che
tendono al Cielo in un respiro d’anima a incontrare la carezza vivificante di
Dio, che ci salva dal dolore e dalla finitudine della vita terrena.
E così alla frase di Kafka, che amo sempre
citare, mi piace aggiungere la frase dello psicanalista, scrittore e conduttore
televisivo Massimo Recalcati: Un libro è un corpo, un mare, un coltello…
E, seguendolo da anni ormai, posso interpretare le sue
parole così: il “corpo” è indispensabile alla nostra mente, al nostro cuore,
alla nostra anima perché veicola tutte le percezioni tattili, visive, uditive
che il mondo esterno ci trasmette attraverso la lettura di un libro, che segna
una traccia profonda anche nel nostro mondo interiore, trasformandosi in
pensieri, emozioni, commozioni, polla sorgiva di gioia e di pianto. Ma
Recalcati spesso parla di “corpo erotico” anche quando parla di libri, le cui
pagine ci devono appassionare talmente tanto da farci vibrare di insopprimibile
amore, tanto da “divorare” il libro e da provare il desiderio del suo possesso
fisico, dopo averlo letto e riletto. Recalcati, inoltre, dice: Il libro
è infatti una figura dell’aperto; è un mare contrapposto al muro. E il mare
unifica molti paesi, territori, razze, lingue. Leggere un libro è sempre fare
esperienza della democrazia. Niente di più vero. Chi non legge vive una
sola vita, la sua. Chi legge, anche se è povero di mezzi economici, vive
migliaia di vite e visita innumerevoli paesi, come sostiene giustamente Umberto
Eco (e parecchi altri scrittori italiani e stranieri di chiara fama).
Ma c’è anche un’altra scuola di pensiero che a me piace
tanto e che parte sempre dalla definizione di libro di Massimo Recalcati:
“Corpo”, perché è fatto di parole scritte che si fanno corpo, cioè
carne della nostra carne, come afferma Paul Valery. Ed è
“coltello”, in quanto dopo il primo colpo per penetrarvi è il libro
stesso che ci ferisce e si prende l’anima e tutta la parte più nascosta di noi,
la nostra “lalangue” (vedi Lacan in <L’Ombra delle Parole>,
Rivista Letteraria Internazionale) la nostra lingua interiore, la
nostra musica e il nostro canto.
Franco Buffoni, altro mostro sacro della letteratura
e della poesia dei nostri giorni, con uno sguardo rivolto al futuro, parla, a
questo proposito, di “ritmo ancestrale”, che è quel respiro che viene
dall’imparare a parlare, dal battito del cuore materno.
E siamo già nel cuore della poesia. La POESIA. Non basterebbero mille trattati per parlarne. Per me è un Dono questo è certo, ma tiriamo fuori questo immenso dono, quando qualcuno ci lascia involontariamente una ferita irrimarginabile, come sostiene la grande poetessa Mariella Bettarini, mia meravigliosa amica da oltre trent’anni. E come sostengono perlopiù i tanti amici poeti che conosco in Italia e all’estero. Ma io ritengo anche che ci siano i momenti giusti, le occasioni, le opportunità, gli amici sinceri e generosi, a cui dobbiamo essere sempre grati. E occorre partire dalla prima fonte per comprendere meglio la foce e non viceversa come spesso accade. Si perdono così i punti nodali della nostra gratitudine. Ma, qualche volta, lo zampillo originario, degno di perenne ricordo e gratitudine si smarrisce nelle brume di ciò che è accaduto dopo e che spesso è meglio non ricordare per non sentirsi feriti ulteriormente. Ma ora sto divagando e non mi sembra il caso di vestirci di amarezza e malinconia. Mi sembra più giusto ribadire perché un bel libro non si regala e non si vende, si compra. E si tiene sempre a portata di mano e di occhi. Un libro, del resto, è, come dice Recalcati, un “mare” perché si apre a mille correnti a pelo d’acqua e sotterranee, per i suoi innumerevoli tesori da scoprire. Infine, è un “coltello” che fende pagina dopo pagina, ferisce e fa male, soprattutto quando ci mette di fronte ai nostri errori, alle nostre illusioni e delusioni, le fragilità, i sensi di colpa, il bisogno del perdono, di una ri-nascita. E, proprio quando più ci inabissiamo nel dolore, il libro ci assolve, ci vivifica, ci salva. Per questo dobbiamo farci catturare da un buon libro. Ne deriverebbe la “Serendipity” (chi non ricorda il bellissimo film statunitense “Quando l’amore è magia-Serendipity!” del regista Peter Chelsom, anno 2001?) per l’Autore e il Lettore, una sorta di felicità per la fortuna di essersi incontrati a metà strada e di aver scoperto inaspettatamente cose e persone che non si cercavano, non facevano parte dei propri itinerari e interessi. È quanto accade ad Antonio Giacometti quando avviene l’incontro con il “guru” brasiliano Ailton Krenak e con l’antropologo italiano Roberto Malighetti, divenuto suo amico “nel sempre del per sempre”. Quanto è avvenuto a noi nell’incontro di sabato scorso. Un giorno per caso, che ci ha illuminato di Serendipity e che non dimenticheremo perché profondissime sono le tracce che l’incontro de visu con Antonio Giacometti, la sua grandezza e la sua umiltà hanno lasciato in noi. Semplicemente. Senza squilli di tromba e suoni di tamburo. Grazie a tutti. Ad Antonio Giacometti in primis, a Nicola Pice, a Vincenzo Mastropirro, a Raffaella Leone, all’attento pubblico. All’editore Peppino Piacente. A tuti i lettori, passati, presenti e futuri. E ai narratori di storie per farci riflettere e pensare e per “vincere la fine del mondo e ipotizzarne uno migliore”. Grata a tutti e a ciascuno dei miei lettori e narratori delle proprie storie nella ricchezza di essere insieme sempre. Angela/Lina
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