<Si era a fine febbraio e mamma ti scrisse una lettera, dicendoti che le sarebbe piaciuto rimandarmi a casa da voi perché non le ero granché di aiuto. Non fece cenno all’accaduto, ma scrisse che non voleva neppure aspettare la fine dell’anno scolastico per farmi completare la seconda elementare. Avrei frequentato quegli ultimi mesi nel nostro paese, con l’aiuto di Lizia perché studiavo poco e male e nessuno poteva seguirmi. Non so se fu davvero per caso o fosti tu a mandarlo (sicuramente fu opera tua!), ma ai primi di marzo si materializzò in caserma il buon compare Luigi, il mio eroe venuto a salvarmi. “Passavo da queste parti e mi è venuta voglia di salutarvi”, disse col suo fare burbero e commosso, adeguandosi a parlare in italiano, essendo in caserma e in terra straniera, “come state? tutti bene? e Angelina come va a scuola?”. “Non la chiamiamo più Angelina, ma Lina. Per una bambina è più breve, più leggero” (l’unica leggerezza che mi era stata concessa da mio padre!). Ma io ero già stretta a lui e lo supplicavo con quel solo abbraccio. “Portami con te. Portami da papà. Non voglio stare più qui”. “Perché non vuoi stare più qui? Stai tutta intera. Vedo che non ti manca nessun pezzo. Sei cresciuta. Forse un po’ sciupata perché sei diventata così alta. E che? Vuoi diventare quanto l’Obelisco che abbiamo al nostro paese? Poi se diventi troppo alta non ti vuole più nessuno”, rideva per nascondere la commozione. E mi prendeva in giro per stemperare un po’ l’atmosfera tesa e come in sospensione. “Babbo è sempre nervoso e mamma ha sempre mal di testa. Anna Maria mi ha combinato un bel guaio al braccio. Vedi questa ferita così grossa e rossa? Me l’ha fatta lei con una gruccia e quando viene il dottore a medicarmela io piango sempre. E pure Pino piange sempre. E mamma piange sempre. E io ho pure il naso rotto. Ti sembra bello stare qui?”. “Beh, allora me la porto davvero la bambina, se qui non serve”, concluse sbrigativo. Mamma sospirò con le lacrime che allagavano silenziose e torrenziali i suoi occhi di tristezza: “Io non vorrei. Mi piacerebbe tenerla con me. Ma starei più tranquilla se tornasse giù da mamma e papà”. “E per la scuola?”. “Potrebbe andare dalla mamma di Nina, la moglie di mio cugino Peppino. La signora Carmela è così brava, garbata e so che quest’anno ha proprio la seconda elementare. Se lei vuole, può accettarla nella sua classe, e poi dall’anno prossimo Lina potrà continuare con lei fino in quinta. Potrà essere aiutata da Lizia. Noi facciamo fare subito il nulla osta e lo mandiamo per posta con urgenza”. “Va bene, va bene. Ho capito tutto”, la interruppe compare Luigi. “Prepara la roba. La bambina viene con me”.
E fu
così che tornai da te
Avevo salutato mamma, babbo, Anna Maria e Pino senza una lacrima. Mamma, invece, singhiozzava. Babbo sembrava confuso, incerto. I piccoli, indifferenti. Non si erano resi conto che stavo andando via. In macchina sentii lo strappo. Il cuore registrò la ferita. Mamma di nuovo era un punto luminoso lontano. Ero a metà strada tra te e lei. E mi sentii disperatamente sola. Come se quel viaggio lo stessi facendo a piedi con granelli di me che rotolavano in un deserto senza fine, fino a precipitare in un burrone che non vedevo ma c’era. E non ero più Lina Angelina Angela. Ero una pietruzza di raggrumato/frantumato dolore che precipitava giù giù giù sempre più giù. Solo allora scoppiai a piangere per la totale devastazione della mia anima. Piansi a lungo come non mi era mai capitato prima, neppure quando ti avevo lasciato. Allora avevo mamma e babbo e Lizia e Anna Maria e Pino con me. E un treno lungo lungo a farmi sognare meravigliose avventure tra alberi in fuga e lembi di mare e orizzonti lontani. Ora mi sentivo sola e abbandonata in quella macchina in bilico sulle curve e strette strade senza riparo di montagna e l’ansia di precipitare nel vuoto ad ogni tornante. Mi sentivo sola, nonostante la presenza protettiva e affettuosa di compare Luigi, che ad ogni mio singhiozzo mi stringeva più forte a sé e mi parlava parlava parlava come canto triste di infiniti violini…
(suona solo per me/ oh violino
tzigano/ … se un segreto dolor/ fa tremar la tua mano…)
A tratti ritornavo alla realtà, lungo percorsi sospesi tra terra e cielo che non conoscevo. In quella macchina che mi sembrava più veloce del treno e della corriera e che mi metteva paura ad ogni curva a gomito che disvelava ancora burroni e campi di grano che una leggera nebbiolina e le mie lacrime rendevano di un verde cupo e lontanissimo sul fondo. Non ascoltavo. Non sentivo. Ero assordata da quella canzone di pianto e disperazione che mi urlava dentro, dal battito del cuore, dal rumore della macchina, dal rumore delle incomprensibili parole che mi giungevano ora all’orecchio come mormorio di foglie o scorrere di ruscello onde di mare vento di montagna tra gli alberi... Poi… gli ulivi. Le strade conosciute. Il cuore placato. Le parole rassicuranti e chiare di chi mi cullava dolcemente. Il mare. I campi. Le vie con le prime case. La nostra casa. Le tue braccia ad avvolgere anche il cuore. Gli occhi di lacrime della nonna. L’abbraccio di Lizia. Il miagolio del gatto. Ero salva>. (dal vol. II di Le piogge e i ciliegi 2017)
E fu proprio la signora Carmela a salvarmi, facendomi scoprire la bellezza delle parole e della scuola in cui capivo e venivo capita e incoraggiata. Di ritorno dai monti della Daunia, infatti, ripresi ad andare a scuola per mettere a fuoco la realtà, che mi sfuggiva, e imparare a leggerla meglio con i segni dell’alfabeto, come tu mi avevi insegnato con il tuo esempio, e come la mia maestra dei monti non aveva saputo fare con le parole.
<Mi mandaste, dunque, dalla signora Carmela, nostra parente, come aveva suggerito mamma a compare Luigi. La signora Carmela, come ben sai, era la suocera di Peppino, ormai diventato un giudice affermato. Era bravissima e forse un po’ severa, ma ci guardava anche con molta tenerezza e comprensione. Era alta e magra. Aveva i capelli grigi sul volto affilato e un’aria signorile che si riverberava nelle vesti e nei modi. Sua figlia, tua nipote acquisita, era docente di lettere nel nostro glorioso liceo. Ed era altrettanto brava. Ma io rimasi affascinata da sua madre, la signora Carmela. Mi piacevano molto le sue mani: lunghe sottili pallide. Erano, per me, ali in volo. Avendo un’ulcera allo stomaco, come seppi poi, era costretta a mangiare poco e spesso e portava a scuola, in un tegamino a chiusura ermetica, delle pappe morbide, in cui intingeva minuscoli tocchetti di pane che spezzettava lentamente con le dita e che masticava ancor più lentamente durante tutto l’intervallo. Io m’incantavo a guardare il movimento di quelle ali delicate come se ad ogni boccone spezzassero l’ostia consacrata per portarla in volo verso il cielo, che neppure si scorgeva attraverso l’angusta finestra dell’aula, ma che sicuramente doveva esserci da qualche parte molto più in alto, dove anch’io spesso volavo... Mi piaceva davvero tanto la signora Carmela, anche come spiegava, e l’amavo perché finalmente capivo e mi capiva, spingendomi con dolce fermezza ad apprendere. Ed io finalmente scoprivo che era bello imparare. E l’amai ancora di più quando, incontrando per caso mamma che era venuta da noi per pochi giorni, le disse che ero una bambina molto brava e molto intelligente, che imparava subito e scriveva dei compitini molto ricchi di fantasia e scritti molto bene. Tutti quei “molto” messi in fila uno dietro l’altro come un “treno lungo lungo” mi esaltarono.
Ero
brava. Ero finalmente considerata.
Le mie parole avevano finalmente un significato. E non solo per me. E vidi mamma tutta felice dopo quell’incontro. E mi sentii felice anche per lei. Frequentavo con la signora Carmela ormai la terza classe, si era alla fine dell’anno scolastico e già scrivevo compitini organici e ricchi di fantasia, ma in quarta, con suo grande dispiacere ed anche il mio, dovetti cambiare scuola perché quella dove lei insegnava, nel cuore del paese antico, era molto lontana dalla nostra casa, mentre a poche centinaia di metri c’era la scuola che aveva frequentato Lizia fino alla licenza elementare. Anche perché la sua maestra, che aveva per lei una vera adorazione, dovendo insegnare in una quarta (non amava farlo nel primo ciclo, che allora comprendeva le prime tre classi, perché “c’era troppo da sgobbare per scolarizzare i bambini”), pretese da mamma che mi mandaste da lei. Mi considerava già sua alunna. E fu così che mi iscriveste alla nuova scuola e cambiai maestra.
Altro distacco. Altro dolore.
Perdevo occhi teneri e attenti. Parole vibranti e appassionate. Guida sicura per la mia crescita. Intanto, a ottobre, dell’anno precedente, il 1950, che era stato proclamato da Papa Pio XII “Anno Santo”, era nato l’altro fratellino. Bellissimo. Lo avevano chiamato come te. Stesso rito per la sua nascita e per la venuta di babbo a conoscere il nuovo nato. Ma lo avevamo visto, fin dal suo arrivo, più disteso e appagato. Poi, erano andati tutti via e io e Lizia rimanemmo di nuovo con te e con la nonna. Lizia ora frequentava la prima media e attraversava da un capo all’altro tutto il paese. Io, invece, solo un pezzo di via della Repubblica. Prendevamo strade opposte come prima, ma ora avevamo un maggiore equilibrio nelle distanze da percorrere, commisurate ai nostri anni. La nuova maestra era l’ossimoro della signora Carmela. Più giovane. Zitella. Più bassa e tarchiata senza essere grassa. Abbigliamento informale. Modi spicci e poco ortodossi. Una femminista ante litteram. Fumava le Marlboro e parlava come un uomo. Spiegava in maniera sbrigativa e ignorava le alunne provenienti dai ceti diseredati, le più lente e con difficoltà di apprendimento. A me, nonostante fossi molto alta per i miei anni, fece occupare il primo banco della fila centrale, proprio davanti alla cattedra, e mi diede per compagna un’altra bambina molto ordinata e diligente, che ben presto si sarebbe rivelata la più brava della classe. E fui anche nominata capoclasse. Avevo, con questo, pure l’incarico di correggere i compiti e di controllare i quaderni delle mie compagne in difficoltà. In pratica, se da un lato mi sentivo gratificata per il mio nuovo ruolo, dall’altra persi nuovamente interesse per lo studio. Venivo mandata spesso di qua e di là nelle altre classi a portare bigliettini e caramelle alle altre insegnanti e non riuscivo a stare attenta alle lezioni. Unica esperienza positiva fu, in quinta elementare, una rappresentazione teatrale della fiaba di Cappuccetto Rosso, per concludere l’anno scolastico prima degli esami di ammissione alla scuola media (allora non c’era ancora la scuola media unica, che prese il via in Italia solo nel 1962-‘63. Dopo i primi cinque anni di scolarizzazione gratuita e obbligatoria, bisognava sostenere il selettivo esame di ammissione per poter proseguire gli studi oltre la licenza media. I bocciati venivano preparati al lavoro attraverso il triennio della Scuola di Avviamento Professionale. Una chiara discriminazione sociale oltre che culturale. Venivano bocciati sempre gli alunni delle famiglie più povere. Fino a che don Lorenzo Milani, il “prete scomodo”, come i giornalisti lo avevano definito per le sue polemiche contro una chiesa conservatrice e autoritaria e una scuola discriminante e verbalistica, con la sua Lettera ad una professoressa, pubblicata poco prima della sua morte, nel 1967, in collaborazione con i suoi alunni di Barbiana, non evidenziò tutte le carenze di una istituzione che “curava i sani e lasciava morire i malati”).
In quel saggio di fine anno, di cui si occupava una brava insegnante amica della mia, mi fu assegnata, per via dell’altezza, la parte della mamma di Cappuccetto Rosso che fu impersonata, invece, da una vezzosa bimba di prima elementare. Fu un successo. Le repliche si protrassero per oltre un mese, con un pubblico sempre nuovo e numeroso. Tu e la nonna venivate quasi tutte le sere. Vi posizionavate ai primi posti per vedere e ascoltare meglio. La nonna mi permise persino di mettere degli orecchini pendenti di oro antico con perline e rose di Francia, preziosi e bellissimi. Anche mamma venne da lontano con gli altri miei fratellini ad applaudirmi. (…).
Furono, quelli, anche i primi anni anche delle prime graduali letture non scolastiche
Dapprima io e Lizia compravamo i fumetti (Il Corriere dei Piccoli, Topolino, Intrepido, il Monello); poi, fu la volta dei romanzi di avventura di Salgàri e Jack London, di Verne e Stevenson; e ci appassionammo ai romanzi rosa di Luciana Peverelli, Liala, Brunella Gasperini, Delly (dalla dubbia identità), Pearl S. Buck; infine, imparammo a saccheggiare anche la fornita biblioteca di babbo che amava gli autori francesi, russi, americani. E cominciò amore infinito per i classici italiani e stranieri
La nostra formazione letteraria e culturale fu, all’inizio, frutto del lungo ascolto delle tue storie che ci spinse ad amare la lettura nella curiosità/speranza/certezza che molte di quelle tue parole le avremmo ritrovate nei libri. E per alcune fu ricerca vana, essendo molte fiabe parto esclusivo della tua fantasia o di quella più colta di un tuo amico italiano, incontrato in America, che aveva studiato tanto e ti raccontava ciò che aveva letto nei libri; per altre, invece, fu scoperta di racconti che l’oralità popolare aveva portato fino a noi e a Italo Calvino, che li aveva raggruppati e rielaborati nelle sue Fiabe italiane. Sta di fatto che fosti tu, con i tuoi castelli in aria e senza saperlo, a inculcarci la passione per la lettura. Poi, furono Teresa e babbo. Io e Lizia amavamo, dunque, leggere ma, mentre Lizia riusciva a conciliare l’amore per la lettura con lo studio scolastico perché amava imparare e amava la scuola ed era sistematica e diligente, senza mai affidare nulla al caso, io finii con l’ignorare i libri di scuola per dedicarmi esclusivamente a romanzi e poesie, alla musica e alle canzoni e ai miti radiofonici di quegli anni. Detestavo la scuola, come ben sai, e studiare per la scuola. La mia formazione prese subito altre vie più atipiche, divertenti, scanzonate. Leggevo leggevo molto per conto mio e a modo mio. Dapprima non m’importava conoscere gli autori, mi piacevano le storie quasi fossero il naturale prolungamento delle tue, o di quelle di Teresa; poi imparai ad apprezzare lo stile e a scoprire quello personale dei vari scrittori, romanzieri e poeti. Anche per la musica e le canzoni la maturazione delle scelte avvenne nello stesso modo graduale: passai da un ascolto acritico e superficiale delle canzoni italiane al desiderio di sapere chi suonasse o chi le cantasse. Quali fossero gli autori. Italiani e, via via, anche stranieri. Con qualche anno in più, cominciai a notare la diversità dei contenuti e degli stili nelle varie opere letterarie: la Provvidenza del Manzoni aveva un respiro più ampio di quella di Giovanni Verga; la prosa di Moravia era completamente diversa da quella di Bacchelli; le poesie di Ungaretti si differenziavano notevolmente da quelle di Montale, pur appartenendo entrambi i poeti alla stessa corrente letteraria… La diversità delle correnti letterarie, mai studiate a scuola, perché ero sempre distratta da qualcos’altro, le andavo scoprendo per conto mio, man mano che m’interessavo a qualche autore, di cui mi piaceva conoscere la vita e la formazione letteraria, culturale e umana. Mi piaceva scoprire quando come e perché avessero imparato a scrivere così, oltre al naturale talento che ciascuno possedeva. M’incuriosivano gli aneddoti e le notizie più che le nozioni. E, se queste ultime non m’interessavano perché erano appannaggio della scuola, i primi erano frutto delle mie letture e ricerche. Quando capitava. Come capitava>. (dal Vol. II di Le piogge e i ciliegi, 2017).
Da pessima alunna e studentessa cominciavo a ritagliarmi una connotazione a me più confacente: quella di scrittrice e poetessa, che avrei conservato per tutta la vita.
Ma, tornando un po' indietro nel tempo, devo ricordare che, dopo il mio ingresso nella scuola media, ricominciarono i miei conflitti con la scuola, anche per via della miopia, che mi ostinavo a non correggere con gli occhiali, collezionando numerose gaffe con le frasi alla lavagna, essendo io stata confinata all’ultimo banco di una lunga fila per via dell’altezza. Il dramma scattava soprattutto quando dovevamo leggere e correggere dal banco, in forma individuale e collettiva, le frasi in francese con tutti gli accenti acuti e gravi che io non vedevo affatto. Uno dei motivi per cui dovetti poi fare i conti con quello sciagurato esame di licenza alla fine del triennio con matematica francese e disegno da riparare a settembre. Con un meritatissimo 4 in matematica e lo sberleffo di due 5 che non conobbero la generosità di un 6 almeno in disegno).
<In terza media, infatti, come ben ricordi, rischiai addirittura di non essere ammessa neppure agli esami per via dell’ultimo compito di italiano, che mi vide completamente refrattaria a riempire il foglio di protocollo, che pure avevo portato diligentemente da casa, per via di una mia vivace quanto incosciente protesta, non valutando affatto le possibili conseguenze, al giudizio sistematico della mia professoressa di lettere: “limare, limare, limare!”. Alla fine delle tre ore, misi un solo punto nel centro del foglio con dietro, al posto del voto e del giudizio dell’insegnante, un Nota Bene: “Ho tanto limato che non mi è rimasto più niente da dire!!!”. Successe il finimondo. Dopo qualche giorno, la professoressa entrò in classe paonazza, urlando sulla mia faccia indisponente e fintamente incredula: “De Leeeeooooo! Coooome hai osatooooo! Tu rischi di non essere ammessa agli esaaamiiii. Lo vuoi capire o no? E col professore di matematica ti rifiuti di fare i compiti e di rispondere alle interrogazioni. Neppure ti degni di alzarti e di avvicinarti alla cattedra, almeno per dimostrare un minimo di buona volontà. E il professore, pur volendo, non può neppure aiutarti. E in francese sei un disastro. Persino in disegno e in educazione fisica vai male. Solo in italiano ti salvavi e ora mi fai questa provocazione. Si può sapere cosa ti frulla per la testa? Ora, vai in fondo all’ultimo banco e scrivi il tema e dimmi pure grazie perché non ti mando dalla Preside. Feci il tema. Questa volta chilometrico, per non smentirmi! Sia la professoressa che la Preside erano due “toste”, ed io mi salvai dal totale sfacelo solo perché scrissi un commovente tema sulla perdita di un fratellino (mai avvenuta in verità), in un diluvio di parole (che neppure oggi riesco ad arginare), tristissime e appassionate. La professoressa, con le lacrime agli occhi, ignorò la lunghezza, non mi esortò a limare, anzi mi chiese alcuni particolari di quella tragica perdita. Ed io fui ben lieta di inventare lì per lì altri dettagli da strappare il cuore. Il tema venne letto in classe e poi fu portato dalla Preside perché lo leggesse. Attimi di gloria. E di battimani a me stessa per la mia sfrenata fantasia. E, così, entrambe chiusero tutti e due gli occhi per ammettermi agli esami, convincendo anche il paterno professore di matematica e scalfendo l’aristocratico aplomb del professore di francese. Ma, come dirò, la loro benevolenza non servì molto all’esito conclusivo di quel famigerato esame: tre materie a settembre! E la disperazione della nonna! Il tuo silenzioso dispiacere. Io, comunque, mi assolvevo sempre, anche se sapevo di essere davvero un’alunna difficile. Ma, tutto sommato, imprevedibile. E quell’“imprevedibile” era per me una “medaglia al valore”: non ero omologata alla classe e questo era sinonimo di libertà e di coraggio, di diversità. Nel senso di divergente, cioè creativa. E tutto questo mi riempiva di orgoglio. Volevo essere così. Perché così ero nata. Così ero me stessa. (Poi, negli anni, la severa professoressa di lettere fu anche insegnante di Raffaella e scoprì anche in lei le stesse caratteristiche di sua madre in quanto a prontezza di spirito, creatività e fantasia, e dovette farsene una ragione. In seguito divenne una mia assidua lettrice! Ma non seppe mai del mio tema tutto inventato. Non ebbi mai il coraggio di rivelarle che quella sua autentica commozione era stata frutto delle mie autentiche bugie).
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