E ogni volta, in questi giorni, non posso fare a meno di ricordare… non posso fare a meno di sperare… testardamente… ostinatamente… anche ripetendomi all’infinito…
<ritornando
indietro negli anni, non posso fare a meno di ricordare anche la Santa Pasqua,
vissuta con te e la nonna. (…) C'erano (…)“rə
sasanéddərə” (panetti schiacciati) con mandorle, vincotto, cacao e canditi
e granellini di zucchero, se proprio si voleva abbondare in decorazioni. Zia
Maria, a Pasqua, era solita regalarci “rə
scarcéddə”: bamboline, coniglietti, campane, angeli, gallinelle di pasta
dolce con uovo sodo al centro e tanti minuscoli confettini bianchi, argentati,
rossi, rosa, azzurri, dorati a ricoprirle. Una voluttà! Io le mangiavo con gli
occhi e me ne tornavo a casa felice per quel ricco bottino. Ma era la Pasqua
vissuta nella nostra casa che ricordo con grande nostalgia dopo tutto il magro
e triste periodo della quaresima, fatto di digiuni, rinunce, via crucis,
preghiere, silenzi per purificarci del divertimento sfrenato (!) del Carnevale
e diventare degni del perdono di Cristo risorto.
E ancora prima della Pasqua la Settimana
Santa
Ho
ricordi vividissimi della Settimana Santa e dei suoi riti perché ero già più
grandicella e perché rendono presente ai miei giorni la fede certa, tua e della
nonna. La vostra fede di straordinaria umanità. Fede generosa e pura. Ricordo
dolcissimo che si ripropone nelle nostre sporadiche o quotidiane chiacchierate.
Dialogo mai interrotto tra me e te sul nostro paese, le case, le cose, il
colore, il profumo, il sogno, le credenze, che caratterizzavano la nostra terra
di quegli anni: quasi un canto antico, recupero di parole, di modi di dire, di
voci mai spente.
La
voce della nonna che ci esortava ad andare in chiesa per la messa delle sette
per il primo venerdì del mese (con indulgenze plenarie annesse). (…). Poi si
doveva andare in chiesa per la via crucis, per i “sepolcri” e per tutti gli
altri riti della santa Pasqua, attesa non soltanto per sfoggiare l'abito nuovo
inno alla primavera (trionfo di gonna a campana di panno-lenci azzurro come la
lacca del cielo d’aprile e di gonna plissettata di un verde prato da far
impallidire le siepi del nostro giardino e camicette bianche come leggere
nuvole di orli ricamati), ma anche per rivivere quel mistero di morte e di
resurrezione vecchio di millenni, e riscoperto ogni anno nella commozione del
cuore, come esigenza di rinnovato perdono.
Per i veri
cristiani la Pasqua era davvero una rinascita d’amore
Un atto di umiltà nella certezza
del perdono
(…)
Squarcio di festosa serenità era la Domenica delle Palme con gli ulivi
benedetti e il bacio affettuoso di autentica rappacificazione.
Tu
portavi in chiesa, sempre alla messa delle sette, un gran fascio di rami
d'ulivo per farli benedire e per poi distribuirli a parenti, amici, conoscenti,
vicinato
(la pace sia con voi… e con il tuo spirito!, ad
ogni scambio di bacio con rametto di ulivo benedetto…).
Nell'aria
c'era il profumo di peschi, mandorli e ciliegi in fiore in netto contrasto con
l'intenso odore d'incenso che respiravo nelle chiese: fuori, esplosione di sole
e di vita a mettermi una pazza allegria nelle vene; in chiesa, la penombra
silenziosa e incombente di un Dio punitore che piegava in ginocchio i miei
pensieri di libertà. E fiati di donne e uomini che il digiuno rendeva pesanti. I
miei atroci peccati? Qualche bugia detta a nonna Angelina per andare a giocare
con le amiche o, più tardi, per poter uscire con gli amici, magari per andare
al cinema oppure per fare quattro salti alla buona, così, tra noi ragazzi; i
rari litigi con Lizia; “i pensieri cattivi” che cominciavano a frullarmi per la
testa e, ancora, il disinteresse totale per la scuola e molti atti di vanità e
presunzione che mi riconoscevo
(sono
bella finalmente capisco tutto non c'è bisogno di studiare tanto le cose ormai
le so...) tante impennate di ribellione (non mi alzo non ci vado non lo faccio non te lo dico non studio non
studio non studio…)
Per
quel perdono barattavo la mia libertà con una settimana santa densa di genuflessioni
e giaculatorie e rosari. Ma era sempre nonna Angelina a sollecitare i miei
pentimenti.
La
settimana santa era un susseguirsi di riti e di preghiere, a cominciare dalla via crucis, che metteva,
quotidianamente, a dura prova la mia pazienza nell’ascoltare e nel seguire, con
meditazioni suggerite dal sacerdote e rinnovate litanie dei fedeli, tutto il
cammino di Gesù condannato a morte dal Sinedrio fino al Golgota. Un cammino,
suddiviso in quattordici “stazioni” con altrettante genuflessioni, in una
chiesa gremita e penitente (adoramus te christe et benedicimus
tiiibi… quia per sanctam crucem tuam redemisti muuundum…) mi ero
riconciliata anche col latino lingua di dio…
Tu
e la nonna seguivate con profondo trasporto tutte quelle riflessioni e
preghiere, che si dilatavano tra le navate in una sorta di cantilena
ipnotizzante. Alla fine anche i fedeli più fedeli erano stremati tanto che alle
Litaniae Sanctorum la folla, dopo un
po’, cominciava a rispondere non più “ora pro nobis”, ma “nobìs” e, infine,
“bìs”, pur non avendo alcuna intenzione di bissare… (kyrie eleison… kyrie eleison… christe eleison… audinos… exaudinos… sancta
maria… ora pro nobis… sancta dei genetrix… ora pro nobis… sancta virgo
virginum… ora pro nobis… … sancte petre… nobìs… sancte paule… nobìs… … sancte
andrea… nobìs… … sancte stephane… bìs… sancte vincenti… bìs… …)
Io
mi annoiavo. Mi chiedevo che efficacia potessero avere quelle preghiere
smozzicate di cui nessuno capiva un’acca. Vagavo con i pensieri, andavo
lontano, fantasticavo, mi consolavo. Qualche volta mi distraevo sui volti dei
vicini di banco. Cercavo d’indovinarne pensieri e colpe per capire il motivo di
tanta sfibrante espiazione. Durante la mattina del giovedì santo, poi, le
strade del paese erano percorse dalla processione del “Misteri” con tutte le
statue raffiguranti le varie torture inflitte a Gesù durante la via crucis.
L’accompagnava la banda con le dolcissime nenie funebri di Carelli, Delle Cese
di Pasquale La Rotella, tutti i grandi musicisti del nostro paese; nenie, che
creavano un’atmosfera di dolorosa attesa che la passione di Cristo si compisse.
Il
rito dei “sepolcri”, invece, era affidato al crepuscolo dello stesso giorno ed
era un rito che mi piaceva molto: si andava in giro per le strade in un
percorso che comprendeva almeno sette chiese da visitare in misteriosa e
mistica penombra. Ai piedi dell’altare maggiore c’era il sepolcro con vasi
colmi di delicati cespugli dorati con lunghi steli di germe di grano,
illuminati da fioche lampade in grandi coppe di vetro ambrato, le cui fiammelle
rosse dipingevano sui gradini e sui muri inquietanti arabeschi d’ombre
guizzanti. Si sostava in raccoglimento e in preghiera per un bel po’. Il tempo
di guardarmi intorno intimidita e incuriosita, persa nell’ammirazione della
bellezza di quei vasi e di quelle luci in una disposizione artistica che
differiva da chiesa a chiesa, secondo l’estro del sacerdote, del fioraio e
delle bigotte che avevano provveduto all’allestimento. Le donne fuori dalle
chiese commentavano: “Madónnə, cə jèjrə béllə cùssə ànnə u səbbùlcrə də sàn
Səlvìstrə e pórə cùrə də rə Vìrgənə”… (“Madonna, quanto era bello il
sepolcro della chiesa di san Silvestro e pure quello delle Vergini…”).“A mè na’ m’è piaciótə pə nnùddə cùrə də
sànd’Andre’, asséjə misirìnə chə dùə strìppuə səccàtə scəchìttə”… (“A me
non è piaciuto per niente quello di sant’Andrea, così misero con quei due rami
secchi soltanto”…)
Dal
venerdì, invece, si entrava nel vivo della settimana santa con i panni viola
che coprivano tutte le nicchie con i simulacri dei santi nelle chiese, e tutti
gli specchi (in cui di sicuro abitava il diavolo, secondo una teoria di nonna
Angelina, derivatale da secoli di medioevo) nelle nostre case. La mia vanità
subiva un feroce colpo fino alla Domenica della Resurrezione. Il mio cruccio
maggiore era non potermi specchiare per vestirmi e per pettinarmi a modo mio (jndə au spécchiə stèjə u diàvuə e tu sì
scəchìttə ‘na məndòsə ca nàn zàpə pənzà a nnùddə
àltə… à dà scè drìttə drìttə au
‘mbìrnə…) (nello specchio c’è il diavolo e tu sei solo una vanitosa che non
sa pensare a niente altro… devi andare dritto dritto all’inferno…) Ma mi
consolavano di tanta rinuncia la processione della Vergine Addolorata della
mattina e quella del Legno Santo della sera, rincuorandomi anche per il lungo
silenzio delle campane, messe a tacere fino a Pasqua; silenzio, interrotto a
intervalli da “rə tərròzzuə” (quei
particolari arnesi molto strani che i ragazzini per strada facevano ruotare
nell’aria con il polso e con la mano, perché emettessero il loro caratteristico
suono cupo e greve, che sostituiva quello più squillante e morbido dei campanili)
fino allo scampanio a distesa della mezzanotte del sabato santo.
Le
due processioni erano un capolavoro di tristezza, di bellezza, di fede.
L’Addolorata
era bellissima con il suo volto minuto e affilato, coperto dal pizzo nero e
intriso di pianto. L’accompagnava una leggenda molto suggestiva. Pare che lo
scultore, ad opera finita, venisse tramortito dalla voce della Vergine che lo
ringraziava per tanta bellezza con le parole: “‘Ncìələ mə vədìstə ca ‘ndèrrə mə facìstə?” (“in Cielo mi hai vista
ché in terra mi hai scolpita?”).
Eri
stato proprio tu a raccontarmi questa delicata leggenda la prima volta,
lasciandomi incredula e incantata. E con la voglia di verificare di anno in anno
la bellezza di quel volto in un canto d’anima che si univa al coro de “La
Desolata”.
Mi
piace anche rivivere con te il racconto tenerissimo, che non conoscevo e che
non so se faccia parte della tradizione popolare o della tua fertile fantasia:
sta di fatto che raccontavi come, nella
tristissima notte “du Scəvədìa Sandə”,
il peregrinare della Madonna addolorata, nella ricerca spasmodica e dolente del
figlio, avesse momenti di straordinaria crudezza e di meravigliosa pietà in
quanto, uscendo dal paese, la Vergine dolente vedeva impiccato ad un albero il
corpo di un giovane: quello di Giuda, il traditore di suo figlio, e con
delicatezza gli si avvicinava, lo accarezzava, gli baciava la mano... Quale
perdono più grande, dunque: quello di un Dio immenso, che lascia crocifiggere
suo figlio, fattosi uomo per redimere l’umanità, o quello di una madre del
tutto “umana”, trafitta da tutto il dolore del mondo, che pure bacia con gesto
delicato la mano di colui che proprio con un bacio aveva tradito Suo Figlio? Lei,
minuscola donna come tante, con un cuore immenso più dell’immenso Suo Dio... (Probabilmente
è per questo che noi tutti ci rivolgiamo a Lei perché interceda in nostro
favore presso il Padre e il Figlio. (…).
Nella
mente si affollano ricordi, lacerti d’infanzia, spaccati di vita paesana,
parole in vernacolo in disuso, ma straordinariamente colorite e dense di
significato, tradizioni da salvare, da valorizzare perché fanno parte di noi,
del nostro sangue e della nostra anima, della nostra cultura contadina e della
nostra fede. Della nostra stessa vita. Fatta anche di paura. Quella paura che
serpeggiava nell’anima di tutti noi bambini quando entravamo nelle chiese con
“scarsa luce e poca aria”, ma piene d’incenso, di lumini rossi, di lupini
appena in germoglio. (…) la paura del buio delle chiese con le statue dei santi
coperte con i panni viola della penitenza spesso era vinta dallo stupore. Meno
piacevole, invece, era la sensazione della “bocca amara di digiuno” durante i
riti della Settimana Santa. “Eri bella come rosa...”: richiamo antico, che mi
attanaglia il cuore, ancora oggi, al ricordo di quel volto come petalo lacerato
che intensamente aspettavamo di guardare con un misto di venerazione, di pena e
di curiosità per quella antica leggenda che voleva quel volto bellissimo causa della
morte del suo scultore. (eri bella come roosa,/ là di Gerico sul praato./
Or sì mesta, sì pietoosa,/ dal sembiante scolorato/ sembri al suol reciso
fioore,/ ricoperto di pallore! …). (…) A mezzanotte, infine, c’era la
processione “du Venerdìa Sàndə chə la
nàchə d’òrə də Crìstə mùrtə” (“del Venerdì Santo con culla dorata di Gesù
morto”), “də l’Addóloràtə” (“della Vergine in pianto”) nella vana ricerca del
figlio, e “du Légnə Sàndə” (“del
Legno Santo”), tutto luci e fiori.
La
piazza alberata, antistante alla chiesa di San Francesco da Paola, era
illuminata solo dai falò nei vasi di terracotta e dalla fede di quanti sin dal
pomeriggio portavano da casa le sedie sul sagrato della chiesa per assistere a
quella triste rappresentazione senza stancarsi, dato che “rə statuìrə” (i portatori delle statue), vestiti di nero, con
camicia, guanti bianchi e papillon neri, procedevano con studiata lentezza
perché le tre statue non si incontrassero mai lungo i rettilinei di quel
quadrilatero. Dopo ogni simulacro con lunghe candele accese, la banda suonava
musiche dolcissime e tristissime come lo Stabat
Mater, canto funebre attribuito a Jacopone da Todi con musica e coro del
nostro Tommaso Traetta, e altre sinfonie. Anche io e Lizia portavamo le sedie
per tempo perché tu e la nonna poteste stare comodi fino alla fine della
lunghissima processione. Qualche volta anche al riparo dal vento freddo,
intabarrati in cappotti e sciarpe per l’atteso inevitabile gelo (dicevate) di
ogni venerdì santo, difficilmente riscaldato dal sole (u vənərdìa Sàndə fàcə sémbə brùttə tìmbə, da quànnə ‘mbrè crìstə sòpə a
la cròcə…) (ad ogni venerdì
santo, da quando è morto cristo sulla croce, è sempre brutto tempo…)
Lacrime
commozione preghiere incanto tradizione
Poi la festosa
Pasqua
Le
campane a gloria della mezzanotte e le mille chiese del nostro paese a salutare
“la Rəsòscətə”, (la Resurrezione di
Cristo), e la nostra gioia per l'avvenuta riconciliazione tra Dio e gli uomini.
Noi c'inginocchiavamo per ringraziarLo. La nonna batteva i pugni sul tavolo per
scacciare il diavolo e fare entrare Cristo risorto. E ci baciavamo tutti in
segno di rinnovato amore. Con tenera riconoscenza. A pranzo, tu benedicevi
l'abbondante tavolata e “u bənədìttə”
(il benedetto) col ramo d'ulivo e l'acqua santa, che prendevamo dalla pila
della chiesa e portavamo a casa in una bottiglietta
(e
mai il timore di un'infezione a sfiorarci e mai una malattia a colpirci per la
nostra incoscienza, ben sapendo di tutte le mani, più sporche che pulite, a
calarsi quotidianamente in quella pila per il segno della croce in ingresso e
in uscita dalla chiesa!). Il benedetto era (e forse è) la specialità del pranzo
pasquale nel nostro paese: uova sode tagliate a metà, arance con la buccia
tagliate a fette (piccoli soli ad illuminare il giorno del perdono), ricotta
dura e salata, salumi vari. E il ragù e l'agnello e la frutta secca e quella di
stagione, e i dolci di Pasqua e il rosolio. E la lettera sotto il piatto come a
Natale e tanta tanta ingenuità tra le mani negli sguardi nel cuore. Ci
sentivamo davvero più buoni. Riconciliati con il mondo intero e con la vita (e… buona pasqua a pasqualino/ buona pasqua a
nicolino/ buona pasqua anche a torino/ ah sì bè/ buona pasqua pure a te!/… vedi poi che in fondo in fondo/ fa la pace
tutto il mondo/ fa i capricci/ fa i pasticci/ ma alla fine devi dir… ah sì bè/
buona pasqua pure a me! Carosone dalla radio cantava anche per noi…)
Il
giorno dopo era ancora un giorno di festa, condito di verde spensieratezza. Si
andava in campagna per vivere “u
pascəcónə” (la Pasquetta) con parenti e amici e lunghe tavolate con altri
cibi tradizionali, l’immancabile “vrədéttə”
(non credo sia traducibile in italiano, forse “il brodetto”, ed era una sorta
di pastina in ragù d’agnello allungato in brodo con dentro carne sfilacciata e
uova rapprese e piselli…) e altro buon vino e chiacchiere e risate. Tu
raccontavi...
Poi,
giunse il tempo della Pasquetta con gli amici. E tu e nonna restavate a casa
perché non era più, per voi due, tempo dei lunghi passi tra l’erba, delle
inerpicate sui sassi, delle scampagnate faticose. C’era ormai la stanchezza di
giorni lunghi da portare su spalle più curve e su gambe sempre più malferme. (‘na ròutə da rəpàrà u səllénə da səstəmà u
manùbriə da addrezzà e u cambanìddə ca dəchiàrə allàrmə còmə a ‘na campàna ròttə
e stənàtə… cə nə məttémə tùttə ‘nzìmə jndə a la màchənə pə fànnə abbəvèscə nàn jèssə jùnə bbùnə…) (una ruota da riparare il sellino da
sistemare il manubrio da raddrizzare e il campanello che dichiara allarme come
una campana rotta e stonata…
se
ci mettono tutti insieme nella macchina del restauro di tanti vecchi non ne
viene fuori neppure uno sano…)
Si spezzò l'incanto >
(sempre
da Le piogge e i ciliegi, vol.1°)
Serena e Santa Pasqua a tutti con tanto Amore e
tanta Speranza in tempi migliori per tutti! Angela
Grazie, Angela! Fai rivivere con appassionata delicatezza i misteri della Pasqua, con gli occhi incantati di una bambina!
RispondiEliminaGrazie di cuore per offrirci tanta Bellezza, declinata in ogni sua forma! Buona S. Pasqua! Rita Vecchi
RispondiEliminaUn augurio sincero con un grande, lungo abbraccio.
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