venerdì 9 luglio 2021

Venerdì 9 luglio 2021: la felicità è anche il dono di un libro da leggere, da recensire...

Dopo il piazzamento dell’Italia alle semifinali degli Europei 2021 e prima del bellissimo ultimo goal che ha decretato, martedì, la vittoria degli Azzurri per la finale Italia-Inghilterra di domenica prossima, mi sono giunti questi tre messaggi che vi invito a leggere: La felicità è nell’attimo ma per fortuna… la vita è costellata di attimi… Infiniti… (Caterina De Fusco). La felicità sta nelle cose che desideriamo. Ci raggiunge per un istante e subito scappa via (Francesca Petrucci). Cara Angela anche oggi stupisci! Le immagini che hai raccolto e le intense parole a commento sono davvero commoventi! Dal canto mio ti riporto alcuni versi ispirati ad una foto che magicamente mi ha trovato in un'ora "percossa e dolente" regalandomi un po'di conforto. Si trattava di una bici solitaria in un bosco, china tra le braccia amorevoli di un ulivo. Ulivo e bici se ne stavano così... Cuore a cuore, incuranti del resto... Un abbraccio forte Angela! “Cuore a cuore”: Lo vedi quel guizzo sul telaio?/ È lì che dimora il ricordo./ Nei raggi che hanno accolto/ esodi e presenze/ senza involucri./ Nel languido abbandonarsi / ad un fraterno abbraccio,/ nel frinire di un ulivo spatinato,/ che freme tra le fronde./ Nel rombo di un palpito,/ nel verde palmo,/ nel qui ed ora./ Cuore a cuore./ (Mariateresa Bari). Tre bellissimi messaggi che hanno in comune, sia pure con motivazioni diverse, il palpito dell’attimo estremamente fugace della felicità. Ci sarebbe da interrogarsi molto sull’“attimo felice” e spero di poterlo fare dopo i mondiali, confidando strenuamente nella vittoria dell’Italia in “campo e terra stranieri”, ma Mariateresa ha riportato l’argomento in “campo letterario”, dandomi la possibilità di esultare per il dono di una straordinaria silloge di Poesie da leggere e recensire. Ebbene, l’Autore, il grande Vittorini Curci, che non ha bisogno di presentazioni, dopo aver letto quanto da me scritto sul suo libro, mi ha restituito un “lungo attimo” di felicità, che ancora dura, per aver trovato le mie parole “consonanti” al suo pensiero poetico e al contenuto del suo libro. “Consonante” è un aggettivo   che mi piace moltissimo perché sta ad indicare che si è d’accordo e in armonia col “suono” dell’altro, dell’interlocutore. Nel nostro caso mi piace parlare di ritmo, musica interiori, un “suonare insieme”, che si attaglia meravigliosamente al mio amico Vittorino: poeta, scrittore, musicista, giornalista. Ed ecco la mia recensione, con uno stralcio della puntuale Prefazione al libro di Milo De Angelis, che offre parecchie altre chiavi di lettura, a cui fa seguito un’altra sapiente recensione del critico letterario Alessio Paiano perché si abbia un ventaglio più ampio di interpretazioni, su cui poter riflettere per ulteriori riflessioni tra di noi. Felice lettura, dunque, anche a tutti voi, miei affezionati lettori…

Mia recensione al libro di Vittorino Curci

Scrigno prezioso che racchiude il Tempo e lo dilata oltre ogni limite possibile ad abbracciare/allargare anche lo Spazio, questo nuovo Libro di Poesie (La Vita Felice 2021) di Vittorino Curci, musicista e poeta di Noci, antico amico del tempo ritrovato perché mai perduto. Le briciole lasciate lungo la strada che da oggi portano a ieri fino a sfiorare la prima alba del mondo sono le parole in cui il poeta, e lettore, ama e paventa ritrovarsi. In “quella terra sconsolata/ sfuggita alle carte geografiche/ dell’eterno”. Lo spazio/tempo del poeta non è mai il suo luogo e il suo momento. Di qui il suo bisogno di riprendersi l’infanzia per ritrovare una sorta di gioiosa innocenza, ma anche “i pensieri di un bambino” che traghettano il suo “io” adulto tra due secoli così contrastanti tra loro da non lasciare speranza nel futuro. Meglio uscire in silenzio dal vortice dei ricordi che labirintano l’anima senza indicare una via di fuga se non un agognato intimo rifugio nei miti che ci vollero eroi, in un alone di mistero che s’annebbia nel buio della notte dei tempi e non concede scampo ai nostri giorni che, ancora più privi di luce, s’infuturano nel passato. E i versi, che non credono in una continuità spazio/temporale della lingua e delle voci (quella di sua madre “più velata”), si sbriciolano in frammenti di ricordi che conservano l’incanto della prima volta, ma anche il tormento della irripetibilità dell’attimo e di quella emozione, quel sentimento, quella situazione/condizione di vita, che il poeta avverte mai propriamente sua perché immersa nella storia degli altri, che rinascono ogni volta in storie diverse, simili e mai uguali. E, del resto, Vittorino è egli stesso un “verso scazonte” sempre in consonanza col ritmo interiore della sua musica e sempre ribelle a schemi di perfezione e armonia, pur nella versatilità del “trimetro giambico” della sua anima. Mai sola. Mai in compagnia. Sempre spaiata. L’unica coppia uncinata nel cuore è quella di quel ragazzino, che “giocava a morra con le ore della notte” per sentirsi vincente, e la sua sorellina, di cui nessuno parla più, ma ci sono i quaderni che la rendono viva più che mai nel “lodevole impegno” di conservarli nel tempo. Un tempo restituito e recuperato in tanto “moltiplicarsi di strade”, nelle innumerevoli “seduzioni e lontananze”, a cui Vittorino Curci, più propenso a ritagliare le ombre interne ed esterne che a vivere la luce e di luce, che spesso al Sud assorda e ubriaca, non si è mai piegato. Non è un caso che persino le sue opere poetiche, che questo tempo scandiscono e divaricano a ritroso e zigzagando nei millenni spazio/temporali, riguardano vent’anni e un po’ di più. Perché niente sia normale, prevedibile, scontato. Il poeta ha avuto bravi maestri per destreggiarsi abilmente nel non scendere mai a patti con la quotidianità: “ridono di noi che abbiamo imparato/ a scongiurare il peggio/ da maestri che alzando ostacoli/ ci amavano, da domande cruciali/ troncate a mezzo”. Mai una risposta a spegnere curiosità e ardimento dovuto alla creatività d’inventarsi il giorno. È proprio vero “che l’amore dei padri si capisce dopo, quando il cielo impalma la terra?”. Forse. “Ogni scintilla di senso” diventa un dono dopo. E così, pur essendo tutto molto contenuto nel carattere minuscolo del segno grafico e tutto a rovescio rispetto alle regole grammaticali e sintattiche, la poesia di Vittorino Curci rivela “un talento che dissoda/ le linee del campo/ e si protegge con un ombrello disegnato da un bambino.”, dove “le parole e il silenzio si toccano” e si trasformano in musica che si fa nuova generazione e “rigenerazione” di un millennio che è agli esordi, ma ci indica già un inizio e una fine tra paure, contraddizioni, nascite, rinascite e morti. “Siamo in pochi, sempre meno, nel nostro misero/ accampamento. La sfrontatezza dei lavori arbitrari/ è appena un ricordo./ Come un finale a tempo/ e una voce fuoricampo che invita a sgombrare/ il passato”. Anche se tutto torna e poi scompare nel nulla di una realtà che non è neppure tale.

E i tanti enjembement di tutta la raccolta danno continuità alla frantumazione di sé e del sé. Ma è una continuità che esalta la poesia, e la musica che vi vibra dentro, ma non dà scampo al poeta né tantomeno al suo essere persona. Vittorino ne è consapevole e guarda con occhi disincantati e lontani l’amara verità mai vera. Rimangono le cose? Forse. E rimane il dubbio. In versi, in prosa. Egli prova a scambiarne i sensi, ma il risultato non muta.  Gli oggetti sopravvivono ai sentimenti. “Oggetti plastici con rari lampi di dolcezza…”. Persino “Dio in persona” lo manca “per poco”. E tutto si risolve o quasi in una sorta di “stanchezza della specie” nei melmosi fondali del tempo. E tutto sempre si invera. È un canto a rovescio che non conosce ritorno. Fino a oggi. Vittorino ama il Teatro ma non i teatranti dell’ultim’ora. Ama la parola ma non i parolai. Ama la poesia ma non i sedicenti poeti. Ama la musica ma non i suonatori improvvisati senza esercizio e senza talento. La realtà vanificata nel “niente”. Il niente che per fortuna è più concreto del “nulla”. Ma non offre via di fuga nell’infanzia, come un tempo. Ed è per questo che l’Autore si congeda in silenzio con il clamore di una denuncia, che rivela la sua ESSENZA altamente umana: “l’attore impacchettato nel vestito viola/ sfida la realtà già pronta di un testo/ mutilato per passione. Profondità è l’evidenza dei legami, l’irreparabile/ di ogni vita (…) i sopravvissuti dormono sui soppalchi/ mentre sulle strade, improvvisamente/ buie, i manichini si sporgono/ dalle sponde dei cassoni

E il viaggio continua in una solitudine che ha “soste puntuali/ nel dolore.” Ma “nessuno dirà/ che non esisti.”.

C’è da sperare che il viola, così nemico agli Attori e al Teatro, diventi un indaco di stupore continuo, di spiritualità immanente e, forse, anche trascendente per i Poeti, i Musicisti e gli Artisti perché ci salvi ancora POESIA, in un messaggio che includa e raggiunga gli altri e gli altri ancora…

E, intanto, Poesie mette le ali e già vola lontano dove imprendibile è persino il tormento dell’attimo fuggente.                          Angela De Leo    

 

(dalla Prefazione di Milo De Angelis a Poesie (2020-1997) di Vittorino Curci)

“L’infanzia percorre tutte queste pagine, con le sue scene antiche e il suo tempo <primo ottobre nel cortile della scuola>, il suo giocare <a morra con le ore della notte>. Ma non è l’infanzia crepuscolare del rimpianto. È una stagione vivissima che non possiamo situare nel passato, che ci raggiunge e ci supera, a volte ci aspetta. È un inizio incessante in cui siamo immersi, quello che ha ispirato un momento esemplare di quest’opera (<Se penso al mattino del creato/ quando le cose furono toccate da uno sguardo per la prima volta/ io sono contento di tornare sui miei/ passi…>) e sollecita nel profondo la sua ispirazione, ponendosi come continuo esordio o come rinascita dopo la caduta e accendendo una corrente impetuosa che scorre tra le righe nei momenti dello sconforto, della sconfitta, dell’essere vulnerabili alle potenze del cosmo: quando <il tuo mandala sarà disfatto/ al primo soffio di vento>, ecco che un altro vento misterioso scuote il disfacimento e lo consegna alla metamorfosi. Così il fascino di questa poesia è un soffio polifonico che raccoglie in sé diverse tonalità –dall’elegia alla riflessione sapiente, dall’invettiva alla supplica – per ricrearsi continuamente dalle ceneri personali ma anche quelle della Storia; è una prospettiva vasta e generale, un’inquadratura in campo lungo, uno sguardo nitido e insieme visionario”.

Ed ecco la recensione del critico letterario Alessio Paiano, proposta da un'altra grande poetessa Ginevra Della Notte sulla sua pagina FB: VITTORINO CURCI, ETERNO DISCEPOLO/ POESIE (2020-1997)

“È difficile scrivere di un libro come quello di Vittorino Curci: Poesie (2020-1997) (La Vita Felice 2021) raccoglie a ritroso gran parte della produzione del poeta di Noci, per cui ci si trova di fronte a una costellazione di testi distanti nel tempo, anche se resta inequivocabile la voce peculiare del poeta. Leggendo il volume si ha la sensazione di girare attorno a un punto ossessivo, mai davvero esplicitato. Penso prima di tutto al poeta che scrive, cerco di comprendere dove voglia arrivare questa scrittura che si modula nello stile, nel verso che cede al racconto nei suoi allucinati ragionamenti. Questa credo sia una tematica onnipresente nella produzione di Curci, intendo la luce. Non si tratta di un elemento puramente decorativo, né di mettere luce, illuminare le cose, rendere chiaro qualcosa. È tutto il contrario: la luce serve a distorcere, è allucinatoria e pone il poeta su un piano stralunato da cui le cose sbiadiscono e si confondono. È questa una zona d’ombra della poetica del sud: una luce che si scatena sulle cose come una maledizione e non dà spazio a redenzioni di sorta. Ogni verso di Curci gioca su questa ambiguità tra folgorazione e caduta infernale; dopotutto la luce è anche e soprattutto quella che rende irrespirabile l’aria del sud, che costringe gli uomini a rinchiudersi nelle loro case in cerca di riparo. La casa non è un rifugio quando le cose si assopiscono, ma il contrario: c’è un mondo fuori che fa il suo corso mentre gli uomini devono attendere il loro turno. Nei versi di Curci tutti gli uomini sono prigionieri di un’attesa riverberata nella morte o nei ritmi stagionali, il tempo è una cantilena che ripete una storia finita; c’è anche spazio per dichiarare l’abisso tra le generazioni, con i vecchi descritti come superstiti e i giovani (soprattutto bambini) che si ritrovano in un mondo con cui prendere ancora le misure, mentre i più grandi non hanno parole per spiegarglielo. Tutto scorre in perdita e il verso registra il ritmo di un tempo interiore che sfuma la memoria e il circostante; sempre ci si chiede leggendo cosa cerchi il poeta, dall’inizio alla fine. Qualsiasi cosa sia non c’è verso di trovarla, il soggetto sembra ritrovarsi di lì per caso, passeggiando tra i ruderi della mente. La terra che si descrive è a volte un segreto, a volte un’eredità, più spesso un mistero; fuori dal caotico ritmo cittadino si fa fatica a collocarsi nella storia, per cui si cerca un proprio ruolo differente. In assenza di una regola riconosciuta, vivere diventa un gioco di riprogrammazione: per questo l’esperienza poetica di Vittorino Curci è preziosa, diversa dai terreni dibattuti da più poeti della sua generazione. Si può solo narrare da una posizione di marginalità, senza creare, con la propria poesia, una bolla in cui rifugiarsi dalle insidie del quotidiano; nella poesia di Curci il distacco dalle cose non è immediato, non ci sono pericoli da cui proteggersi. Le distanze sono molto più ampie, e riguardano un mondo troppo lontano (il mondo del ‘centro’) per essere reale: a smuovere il rischio di un paesaggio immobile ci sono le esistenze degli altri, che fanno riemergere gli occhi da un sogno immobile. Volti nuovi di persone venute da lontano e che destano la curiosità del poeta, contrastata dalla diffidenza degli altri abitanti del paese, un paese che non è mai specificato e che quindi coinciderà con ogni angolo desolato del Meridione. In una parentesi storica curiosamente ricolma di maestri, Vittorino Curci si mostra come un eterno discepolo che mette a disposizione di tutti, senza cesure generazionali, la propria esperienza di uomo tra i ruderi della storia. «Si è vivi da qualche parte», dice una delle poesie: quel luogo è il senso della ricerca, ma tutto si rimanda in una luce che non lascia scampo. Cosa significa per Curci (e per chi la conosce) questa luce? Un faro accecante che da secoli manda a fuoco un palcoscenico di pietra e terra, dove noi agiamo ma solo come comparse”.

E non finisce qui. Conto di continuare ancora col libro di Vittorino Curci perché la nostra felicità di leggere e intervenire con le nostre considerazioni continui…

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