Venerdì sera, nella
nostra libreria, Secopstore di Corato (Bari), abbiamo avuto il piacere di
ascoltare il dott. Stefano Campanella, direttore di Tele Radio Padre Pio,
intervistato dal caro amico e giornalista Franco Tempesta sull’ultimo suo
libro, intitolato “I tre misteri della
morte di Padre Pio”.
L’autore ha catturato
l’attenzione dei presenti con il suo racconto molto dettagliato e appassionato,
ma anche obiettivo e rispettoso di ogni pensiero e punto di vista, sulla vita e
la morte di Padre Pio, sulle sue stimmate, scomparse del tutto dopo il suo
viaggio tra le braccia di Cristo, e sui suoi doni carismatici, come la
bilocazione e la precognizione.
Non è stata letta
alcuna pagina del libro, ma lo scrittore mi ha emotivamente ed empaticamente
coinvolta in un argomento non facile per i tanti pregiudizi che ancora oggi aleggiano
sulla figura di Padre Pio, che, pure, in tantissimi amano e venerano in tutto
il mondo.
Un’affermazione, però,
mi ha turbato molto, detta perentoriamente e con assoluta fede: “Dio è amore”.
Mi sono girata a guardare mio cognato, Gianni Brattoli, ben conoscendo la sua
reazione di rifiuto di fronte a tale affermazione, nel riportare alla memoria
millenni di violenze e di guerre e di massacri e di quanto di aberrante possa
esserci nella natura fisica e in quella umana. Gianni, che pure ha scritto due
romanzi della prevista trilogia sulla “violenza”, quale macchia oscura che
dilaga improvvisamente nella mente umana, inducendo a far commettere anche i
più efferati delitti, con più o meno inconsce e diverse motivazioni (sta ora scrivendo
il romanzo conclusivo), non è intervenuto. E non mi sono state chiare le sue
motivazioni.
La serata, pertanto,
si è conclusa tra i meritati applausi per l’autore/relatore e un sentito
arrivederci al prossimo romanzo di pronta pubblicazione, ancora su Padre Pio.
In queste due notti ho
riflettuto molto sulla convincente disamina del dott. Campanella e sulla sua
affermazione, fulcro di ogni altro discorso sulla vita di Padre Pio e sulla
vita in genere. E sono qui a fare anch’io qualche riflessione.
Per un confronto anche
e soprattutto con voci divergenti. Altrimenti che confronto sarebbe?
Ebbene, io faccio solo
delle ipotesi, partendo naturalmente dei miei presupposti.
Già: presupposto che.
Ossia io parto da una mia convinzione e/o dal mio punto di vista. Presupposto,
infatti, è il fondamento “a priori”, ciò che viene prima a sostegno di una tesi
che si svilupperà per argomentazioni che tenderanno tutte ad affermare e a
confermare il proprio convincimento, che purtroppo molto raramente viene
superato, smantellato, scardinato dal convincimento dell’altro.
Solo gli spiriti più
aperti e senza schemi fissi o barriere interiori possono, dietro inevitabili confutazioni
e opportune e pertinenti reazioni alle stesse, giungere ad accettare il punto
di vista dell’altro e farlo proprio. L’altro, dunque, è stato dialetticamente
convincente tanto da “cum-vincere”, “vincere con”, ossia senza vincere da solo,
ma con l’altro, per fargli scoprite la bontà del proprio assunto. Non si
registrano, perciò, perdenti. Questo verbo è, per me, più importante di
“persuadere”, che significa appunto “ottenere il consenso, suscitare
l’approvazione di qualcuno, indurlo a darci ragione”, come la Treccani recita.
Ebbene, a mio parere,
sarebbe tutto qui il nocciolo della questione. E non se ne viene fuori. Solo se
si è liberi dentro e capaci di superare il proprio punto di vista per accettare
con convinzione quello degli altri, ci può essere vero confronto e vera
crescita, nel migliorare prima sé stessi nella speranza che gli altri
migliorino in virtù della validità universale (o quasi) di una affermazione,
non accettata per quieto vivere, ma a “ragion veduta”.
Ma quanto vale
realmente la ragione in tutto questo?
Ha il suo peso in
relazione all’argomento affrontato. Di sicuro non è valido per la fede in un
credo qualsiasi. Non in quello politico, dove un tempo si sposava con l’ideologia
partitica e, quindi, di parte, fortemente radicata nella coscienza e praticata
nella esperienza di appartenenza, a discapito della obiettività. Non in quello
calcistico, che si sposa ancora oggi con la tifoseria, non sempre corretta e
rispettosa degli avversari, anzi sempre più violenta e pericolosa. Men che mai
per la fede legata ad una religione che spesso è sfociata e sfocia nel
fanatismo, di cui tutti conosciamo le nefaste conseguenze a livello mondiale.
La ragione non è in
grado di chiarire il mistero (dobbiamo farcene una ragione!), perché non può
andare oltre il dimostrabile con tutte le teorie scientifiche di cui siamo in
possesso fino ad oggi, ben sapendo che la scienza non è assolutamente “esatta”,
altrimenti non ci sarebbero stati gli innumerevoli cambiamenti delle varie
teorie nel corso dei millenni.
E, allora, di chi o di
cosa possiamo fidarci, quando vogliamo affermare un nostro pensiero? Personalmente,
mi fido della “possibilità”. Tutto è possibile fino a quando inconfutabilmente mi
viene dimostrato il contrario. “Inconfutabilmente”?
Esiste una teoria non
confutabile nel tempo e nello spazio?
Certo, dovremmo tenere
nella giusta considerazione l’“hic et nunc”, ma non farcene schiavi. La creatività
ci affranca da questa schiavitù perché ci conduce sempre “in un altro tempo e in
un altrove”. Non a caso Einstein ha denunciato che la mente razionale è oggi serva
della mente creativa, che è un dono sacro. Noi purtroppo abbiamo elevato a
padrone il servo, dimenticando il dono sacro. Più o meno così.
Allora, sarebbe
preferibile dire “tutto è possibile”! E rimanere aperti ad ogni sentiero, ad
ogni rivolo, ad ogni colore, ad ogni via maestra o scorciatoia da percorrere
con le “intelligenze multiple” (Gardner)
che diversificano il pensiero umano, nel rispetto del pensiero di tutti e di
ciascuno. Il che non significa condivisione o passiva accettazione. Significa
“reciprocità”. Una parola che mi piace molto. Che include e non esclude. Che
accoglie, ma non abbraccia incondizionatamente. Che salva e non condanna.
Perché tutti siamo possessori di frammenti di verità, senza la presunzione di
possederne una… La verità!
E, allora, tornando
all’affermazione “Dio è amore”. Io non me la sento di rigettarla tout court, solo perché vivo in un mondo
che da sempre sembra essere l’antitesi dell’amore. Né di difenderla a spada
tratta, perché sono convinta dell’esistenza di Dio e del suo incommensurabile
amore per l’uomo e per il Creato. Niente di tutto questo. Vivo in continua
tensione di ricerca nella consapevolezza della estrema fragilità della mia
mente umana di fronte all’immenso che mi circonda, e soprattutto se questo
immenso lo attribuisco al mistero della sacralità della vita e, dunque, della dimensione
divina, che dovrebbe essere dentro e fuori di noi, se è vero che il tutto è
fatto di un’unica materia, come gli stessi scienziati vanno, di volta in volta,
scoprendo.
“Siamo figli delle
stelle” e tendiamo al cielo. Anche questa affermazione potrebbe essere vera.
Perché? Occorrerebbe chiederlo a chi ne sa più di me. So solo che questa
tensione l’avvertiamo inconsciamente dentro di noi. Persino Emilio di Rousseau,
tenuto fuori da ogni influenza sociale e religiosa, tende da solo alla ricerca
e alla scoperta di Dio. Sente in sé stesso questo misterioso anelito.
Mi si dirà che non
tutti gli uomini lo sentono. I materialisti, i pragmatici, i razionalisti, gli
agnostici, gli atei, al limite persino i laici, in cui tutti più o meno ci
ritroviamo, non hanno mai sentito vibrare nella loro anima questo anelito,
altrimenti si sarebbero messi anche loro a cercare Dio. Non so se questo sia
vero o meno. Non ho mai affrontato con qualche rappresentante di queste
categorie un argomento così intimo e personale, pur parlando di assenza di fede
(non di “mancanza”, perché si registrerebbe comunque un vuoto!), o della fede nella
ragione, nell’azione, nel fenomeno, nella materia, nella esistenza e così via. Mai
ho ritenuto giusto affrontare con i miei interlocutori il tema della genesi
delle loro convinzioni, sentendo dentro di me il dovere di essere discreta per
non “rovistare” nella sacralità delle loro anime.
Io ritengo, ma è un
mio pensiero, che tutti partiamo dalla spinta a cercare e ricercare. Comunque
sia, è innegabile nella natura come nella vita la presenza del Bene e del Male
ed è quasi inevitabile pensare che se Dio permette il male non può essere un
Dio d’amore. Anzi! E addebitiamo a lui ogni nefandezza. Oppure, se vogliamo
scusarlo o ne ignoriamo l’esistenza, facciamo riferimento al Caso, cancellando
del tutto qualsiasi altra possibilità.
Caso, dunque, o
casualità?
Anche qui i dubbi ci
assalgono. Alcuni sono certi che tutto derivi dal Caos primordiale,
trasformatosi in Caso. Altri vedono in Dio la Causalità.
(fine prima parte)
Intensi e molteplici spunti di riflessione (Rita Vecchi)
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