domenica 30 marzo 2025

Domenica 30 marzo 2025: oggi scrivo di te, MAMMA... (prima parte)

Ancora una giornata di pioggia battente, dopo i temporali e il vento a schiaffeggiare i giorni scorsi. Ancora acqua a mescolare ricordi e lacrime. Il 2000 fu per noi l’ultima estate serena. Eravamo, come da anni ormai, in un villaggio chic a pochi chilometri dalla bellissima Otranto, terra di martiri e di mare, terra di riproposti incanti nelle stradine di souvenir e memoria amara di turchi e saraceni. E poi ancora altre rive e tramonti in quella penisola di vento e d’ulivi baciati dal sole, nella più grande penisola dalla caratteristica forma di uno stivale, la nostra bella Italia, che il mondo attraversa, percorre, invade e invidia.

Ma, con le prime piogge d’autunno, il cielo si coprì di nembi e di bui giorni alla deriva: Anna Maria e la necessità di un intervento a cuore aperto. E mamma e Gianni e le figlie sempre con lei. A pregare per il suo ritorno a casa. Io, in un’altra clinica a Roma, dove dovemmo ricoverare Ombretta per il suo ricorrente problema da malattia autoimmune, a pregare con il suo ragazzo perché tornasse a casa, dopo mesi di terapia sbagliata e corsa in un altro centro nel tentativo di salvarla.

Lo stress piegò la delicata fibra di mamma e si era ormai a dicembre del nuovo millennio.

2001, perciò, segnò il devastante addio che ci vinse solo un anno e pochi mesi dopo quel Capodanno, che incise a caratteri cubitali nella Storia il primo anno di un nuovo secolo a regalarci illusori refoli di risorte umane utopie.

Perdemmo mamma, in un lago di disperata corsa al suo sorriso. La perdemmo in quattro mesi di angoscia su alte montagne innevate e profondi abissi di nuove speranze e nuove disperazioni. Mamma. E il suo sguardo sempre più dolente e malinconico. Pensieroso e stanco. E l’ultimo nostro Natale e l’ultimo Capodanno, ventiquattro anni fa, vissuti insieme in quella che era stata la nostra casa del gelso e delle rose e che ora è una villa bellissima al centro del paese, abitata da Anna Maria e Gianni, e a cui fanno capo Isabella e Nicoletta con la loro nidiata oggi di adolescenti, nati negli anni, dopo i suoi ultimi sorrisi. Tutti nella tua casa senza più il gelso e con poche rose ma con tanti altri alberi e fiori… e voci e lacrime e allegria e tenerezze di giorni e di anni… Nicole (figlia di Isabella e prima nipotina di Anna Maria), oggi una dolce e sensibilissima ragazzina che, da bimba, era tutta baci da afferrare con le dita e depositare nel cuore… e il bellissimo Francesco, silenzioso e determinato ad essere vincente nello studio e in tutte le sue passioni sportive e tanto altro. Poi, i figli di Nicoletta: Sofia, splendida adolescente che sin da bambina aveva mille parole tra le labbra e mille acquerelli tra le dita… E suo fratello Andrea, che somiglia tanto a mio figlio Giuliano. Stessi occhi grandi e sornione sorriso. Ma allora allora allora…

Allora, nel tempo perduto nel tempo dei rimpianti, fu tempo di lacrime per tutti noi, sopravvissuti a tanto strazio; lacrime, nascoste maldestramente tra ciglia di dolore per un mostro tentacolare che si era ripresentato dopo anni di quiescenza e di tranquilla certezza di averlo debellato per sempre. Senza gravi danni per la sua salute. Mamma. E il suo andare, volto preoccupato e passo leggero e il cappellino verde di morbida lana a incorniciarle il viso segnato, con la figlia più giovane, sua compagna di vita ormai, in un Centro specialistico al Nord, dove operava un mago della chirurgia oncologica.

Furono tre mesi altalenanti di notizie mai chiare mai scure.

E la decisione di raggiungerla io e Lizia, con Pino alla guida della sua macchina in volo sulla corsia di sorpasso in sole sei ore per correre da lei, e Anna Maria impossibilitata per quell’intervento a cuore aperto, che andava superando lentamente e a fatica, e il nostro cuore ad anticipare chilometri e incontro. E Anna Paola che nella sua casa festeggiava senza di me il suo secondo compleanno. Giorno d’inizio primavera. Giorno dei ciliegi in fiore. 

Mamma era lì, inerme e sperduta, spaurita e gracile, dopo due interventi che ci dissero risolutori, ingannandoci. Fiorivano le prime margheritine di marzo… e bianche rose d’ogni mese ornavano il viale che portava alla sua camera al pianterreno di quell’immensa clinica dei miracoli. Dalla finestra potevamo vederla prima che ci fosse permesso d’incontrarla e lei ci sorrideva stanca e teneramente aggrappata a quel primo abbraccio da lontano, nell’attesa di riabbracciarci con mani e braccia e tremori intrecciati. E sollevava le mani in segno di saluto ed erano affaticate farfalle in lento volo. Pioveva anche in quei giorni di ansia e di paura. Una pioggia né buona né cattiva, una pioggia d’attesa… Poi… improvvisamente il sole! La sollevammo dal suo letto di spenta speranza perché potesse lasciarsi riscaldare dal tepore beneaugurale di quei raggi dorati. Ma lei rimase con occhi vuoti senza guardarlo. “Mamma, hai visto? C’è il sole! È finalmente una bella giornata!”. Silenzio e occhi spenti. “Mamma, possibile che non ti rallegra il sole? Guardalo. È un dono tutto per te oggi!”.

Silenzio e occhi spenti. “Ma come è possibile che non ti si allarga il cuore per questo raggio di sole dopo tanta pioggia?”, stupidamente ancora io, mentre gli altri figli si astenevano. Silenzio e occhi spenti. Silenzio. Laghi di pianto trattenuto negli occhi, e il suo abbandonarsi esausto sui cuscini, noncurante del sole della bella giornata delle mie parole a rincuorarla.

(Alcuni anni dopo, parecchi anni fa, anch’io ho guardato il sole con indifferenza da una finestra d’ospedale dove stavo lottando per sopravvivere. Mi sono ricordata di lei e del suo rifiuto inerme.

Non più quel suo sorriso sempre pronto e generoso nel lenire ferite. Compresi e mi disperai per quella mia insistenza fuori luogo in un momento così difficile e doloroso per lei. Le avevano annunciato il terzo intervento nell’arco di appena tre mesi. Ed era disorientata. Impaurita. Disperata.

Anch’io non ero in condizione di godere del sole e della sua luce luminosa in quel centro di riabilitazione in cui mi sentivo debilitata. Anch’io evitavo di guardarlo per non provare la ferita di dovergli probabilmente dire addio. Come avevo potuto pretendere che lo guardasse lei che aveva i giorni contati e lo sapeva? Come poteva sentirsi rasserenata, e paga di quel raggio di sole? Non avevo capito niente di mia madre e della sua anima prostrata e vinta! Come si può essere così superficiali, anche quando le nostre parole sono dettate dall’amore? Anche quando sono dettate soltanto dalla preoccupazione di alleviare le sofferenze di chi amiamo? Purtroppo, sì. mi era capitato anche con mio nonno, altro mio grande amore per la vita ed oltre. Evidentemente, si può! Ma oggi mi chiedo: sappiamo veramente cosa sia giusto dire e cosa evitare? Quante incomprensioni in un atto di amore… Eppure accade. Sì, accade. Siamo incapaci di totale comprensione di ogni altro da noi. Fosse pure nostra madre. C’è qualcosa in noi di veramente unico e irripetibile, che è solo ed esclusivamente nostro, che ci impedisce di comprendere appieno l’altro e di farci comprendere pienamente dagli altri. Si salva la nostra individualità ma non la nostra socialità. La nostra affettività. Miliardi e miliardi di stelle, ognuna col suo nome, la sua costellazione, la sua distanza anni-luce dall’altra. Di qui la difficoltà di ogni comunicazione. Di superare il vuoto che ci separa, pur vivendo spesso nella stessa galassia.

Quella strana inevitabile condizione di imperfezione e di non totale comunicazione era purtroppo accaduta anche tra me e mio nonno, tra me e mia madre. Mio malgrado, loro malgrado.

E per oggi, chiudo qui. piove ancora, ma più lentamente, più lentamente e i ricordi prendono il sopravvento sulla pioggia, mi stringono il cuore. Ho bisogno di rasserenarmi. Riprenderò domani. Buona domenica, anche se le notizie di oggi non mi rasserenano: soffiano altri terribili venti. Venti di guerra. E io non poso fare a meno di riportare: Ricordati Barbara/ Pioveva senza sosta quel giorno su Brest/ E tu camminavi sorridente/ Serena rapita grondante/ Sotto la pioggia/ Ricordati Barbara/ Come pioveva su Brest/ E io ti ho incontrata a rue de Siam/ Tu sorridevi/ Ed anch'io sorridevo / (…) / Ricordati Barbara/ Non dimenticare/ Questa pioggia buona e felice/ sul tuo volto felice/ Su questa città felice/ (…) / Oh Barbara/ Che coglionata la guerra/ Che ne è di te ora/ Sotto questa pioggia di ferro/ Di fuoco d'acciaio di sangue/ (…) / Oh Barbara/ Piove senza sosta su Brest/ Come pioveva allora/ Ma non è più la stessa cosa e tutto è crollato/ È una pioggia di lutti terribili e desolata… (Jacques Prevert, stralci della poesia “Barbara”, Paroles, 1946) 

sabato 29 marzo 2025

Sabato 29 marzo 2025: MILO DE ANGELIS e il “TEMA DELL’ADDIO” …

Oggi mi piace parlare, sia pure brevemente essendo sabato e, leopardianamente, si sa che è il giorno dell’attesa, non del compimento, del GRANDE poeta Milo De Angelis, che ho avuto l’onore di conoscere meglio attraverso la puntuale Prefazione a uno dei tanti libri di Poesia di Vittorino Curci, di cui ho scritto un “quasi saggio” antologico-corale (appena pubblicato dalla SECOP Edizioni di Corato-Bari, pp. 171, £ 14 i.i.), riguardante la sua Opera poetica di questi ultimi anni: I LUOGHI DEL CUORE - UNA SOLA MUSICAPOESIA O IL SUO CONTRARIO -, in cui mi è piaciuto mettere a fuoco i tanti luoghi del cuore che ciascuno di noi si porta dentro e che non sono esclusivamente riferiti al paese natio, ma a tutto quanto si possa sintetizzare in una emozione che ci comprende nell’attimo in cui la proviamo, sentendo che potrebbe durare nel nostro “per sempre”, che è anche il nostro “mai”. Tutto in queste pagine è, ma anche il suo contrario. Come è giusto che sia quando si tratta di un saggio su VITTORINO CURCI, che non ha bisogno di presentazioni. Queste le fa per me il Direttore di Collana “Scienza e Conoscenza”, cioè Giovanni Romano: “… Vittorino Curci: poeta, musicista, pittore, artista a tutto tondo, come ogni vero artista perennemente in ricerca, forse anche in attesa del momento in cui la poesia si rivelerà in tutta la sua terribile forza catartica…”.

E per connotare in qualche modo la straordinaria scrittura del Prefatore ecco alcune sue meravigliose affermazioni: Il cuore. È intorno al cuore che ruota tutto questo libro. Cuore della poesia, cuore materno, infine luoghi del cuore. Sono i luoghi dove - forse solo per qualche giorno o per qualche ora - siamo stati veramente noi stessi, dove abbiamo vissuto le esperienze più fondamentali della nostra vita, dove abbiamo incontrato persone che ci hanno fatto crescere e cambiare, dove ci è stato dato, per un istante, di sentirci lietamente, definitivamente vivi e completi. È uno splendido e inusuale biglietto da visita: di cultura, sensibilità poetica, generosità, umiltà, come ben si addice a uno studioso della sua statura intellettuale ed etico-sociale. E non è una sviolinata. Inutile e dannosa per tutti. È la pura verità. E il mio modo per dirgli “Grazie”, dato che mi è stato impossibile farlo prima.

Per quanto riguarda, invece, Milo De Angelis, si tratta di un ricordo che risale a vent’anni fa, ma sempre presente nel mio cuore: un articolo bellissimo, scritto nel 2005, sulla pagina de <LA REPUBBLCA>, dal compianto Enzo Siciliano, sul “Tema dell’Addio”, dopo la morte della amata compagna di vita dell’immenso nostro poeta, Giovanna Sicari, anch’essa poetessa di chiara fama.

Poesie complesse, come avvolte nel dolore e nella solitudine che sopravviene e sopravvive al dolore stesso. Inevitabile. Incolmabile. Insaziabile. Eppure così vivo da portare con sé una indescrivibile gioia, mista a una musica interiore “che riesce a illuminare gli angoli più bui dell’angoscia”. E Siciliano riporta alcuni versi a conferma di quanto abbia evidenziato con la sua analisi, accurata e discreta, di alcune poesie come: “Talvolta è stato attendere nel buio/ la felicità degli atleti, la chiara/ fantasia sulla pista, i bei giocolieri,/ talvolta è stato un blocco di partenza/ una melodia invocata tra le note/ più disperse, i cuscini, le scale mobili/ dell’ultima estate/ dell’ultima/ frase che respira in tutte”. E niente è più utile, nei momenti di più acuto dolore per una malattia che non lascia scampo, il riportare alla mente le loro passioni vissute in due, tra “la forza della tenerezza e l’estasi della passione”. In realtà, come in tutta la poesia di De Angelis, si parte sempre da un vissuto di vita personale per dilatare l’esperienza a tutto quanto è altro da sé, in un viluppo che costantemente si dilata in cerchi concentrici fino a  molteplici confini di fuga, che sono i continui “aggiustamenti” per orizzonti più ampi, perché niente rimanga immobile e intatto, ma ogni confine si dilati per farsi centro di un’altra periferia, a comprendere tutto l’altro che, come sostiene il filosofo lagunare Massimo Cacciari, “ha un cum”, che porta altrove oltre la rada. Il confine, in fondo, a mio parere, non è mai punto fermo, ma eterno movimento a portarci lontano dalla nostra casa, dai nostri affanni, persino dai nostri stessi sentimenti, perché non facciano più male. Nel caso di De Angelis, forse diventa il prolungamento di una identità collettiva che potrebbe rimanere inesplorata se non fosse per la volontà del poeta di dilatare l’attimo per renderlo eterno nella sua invisibilità corpuscolare, che si rende visibile non appena un raggio di sole illumina le innumerevoli particelle “tra scontri e ferite” (De rerum natura II, 122). E, del resto,  Il tempo è un fiume che mi trascina, e io sono il tempo; è una tigre che mi sbrana e io sono la tigre; è un fuoco che mi divora e io sono il fuoco”: sosteneva il grande poeta e visionario Luis Borges. Ritengo che la stessa percezione di identità unitaria e frammezzata e di totalità temporale si avverta nella poetica di Milo De Angelis, che abbraccia tutta una vita: salti temporali s’intrecciano, si sovrappongono. Passato, presente e futuro sono su una stessa linea di continuità/discontinuità. E ci sembra di essere noi stessi immersi in un tempo che nei suoi versi ci ingloba, ma si slarga in innumerevoli direzioni, offrendoci nuove prospettive e possibilità di vite altre. Non a caso, il poeta, che ora vive con la fotografa Viviana Nicodemo, attingendo dalla sua Arte fotografica, che coglie l’attimo per eternarlo, afferma che quest’ultimo “è un istante che bisogna cogliere tra i mille possibili, è l’istante cruciale, il Kairòs”. Tutto quello che è giusto cogliere immediatamente, senza esitazioni di sorta, perché nulla vada perduto. Né l’amore, né il dolore, né la rinascita per sapersi vivi!

                                                                                Angela De Leo

 

venerdì 28 marzo 2025

Venerdì 28 marzo 2025: LUIGI LAFRANCESCHINA e le sue poesie tra pensieri e ricordi...

È da parecchi mesi che il libro DOPPE LA VENNEGNE: PENZIIRE E ARRECURDE - DOPO LA VENDEMMIA: PENSIERI E RICORDI - del mio carissimo amico “dei migliori anni della nostra vita” (Renato Zero) è sulla mia scrivania in attesa. Io l’ho letto più volte, fino a farmelo amico, anche perché spesso ho ritrovato me stessa, i tanti ricordi del passato, quando, avendo vissuto la stessa infanzia e adolescenza negli anni Cinquanta-Sessanta del secolo scorso, avevamo più o meno accumulato le stesse esperienze di vita. All’ombra anche della vendemmia e della sua fatica che si trasformava in festa, come festa dell’allegria, che sostituiva i nostri pensieri, non sempre chiari e luminosi, come capita appunto durante l’infanzia per una sorta di ignoranza del mondo, e l’adolescenza, l’età della “crisi di identità”. E di ogni altra crisi, non sempre certificata, ma comunque vissuta con malumore, ribellioni ai genitori e agli insegnanti, al mondo adulto in genere, persino ai primi inconsueti palpiti del cuore. E dubbi e incertezze, e ostinati silenzi, per una pace mai fatta tra un corpo che cresce e una mente che non lo accetta, perché non riesce a prendere la giusta misura della distanza tra sé e gli oggetti, le cose, gli altri, il mondo… Crisi soprattutto della “identità sessuale” con il “complesso di Edipo” e di “Elettra” sempre in agguato. Fino all’identificazione con il genitore del proprio sesso, nel più semplice dei casi.

A quegli anni, dunque, risalgono i nostri ricordi tra un pizzico di nostalgia e un senso di maggiore appagamento per la scoperta di una realtà più completa e veritiera di noi. E così in Luigi si sovrappongono e si distendono i pensieri per ricordare, con i suoi versi: il padre, la madre, e poi la Murgia, con le piante, gli arbusti, gli animali, la natura a dargli il sapore di una realtà altra, che non era la propria casa ma sinfonia murgiana, dove si trascorrevano i giorni non nell’ammirazione di ferule e lumache d’alabastro, ma nella disperazione delle “toppe al sedere”, “dello stomaco sazio di fame”, delle piogge e del sole, del desiderio inappagato di andare al mare, salvo a scoprirlo nella distesa di campi in fiore, Un mare verde di vigne/ solcato da barche di ulivi e di mandorli/ E mi sembrava un mare più bello/ Del mare delle vele e dei pesci!

E i ricordi abbracciano anche le cose della vecchia casa: ci sopravvivono le cose, certo, ma giunge il tempo, se si sopravvive al tempo, della “consolle tarlata”, delle “sedie di Vienna” azzoppate dagli anni e dai malanni dovuti alla muffa, che non perdona. Il tempo di quando neppure noi riusciamo a perdonarci, perché il pendolo  

 ha voce arrochita per il dolore di registrare continue assenze, che mai più ritornano.

Pure rimane intatto il “baule dei ricordi” da consegnare al figlio, “Perché non dimentichi!”.

E, così, il tempo dei rimpianti si veste di altri ricordi non sempre piacevoli da ricordare: il tempo delle piogge e delle bestemmie del padre, uomo infaticabile fino a sentire il sonno piegargli le ginocchia e rimanere sveglio per lavorare ancora per via dello scarso cibo da portare a casa e la moglie brontolona per un bucato che stenta ad asciugare; la lotta quotidiana ai pidocchi che scorribandavano nelle case di tutti, ricchi e poveri, nonostante i drastici rimedi, che potevano risultare più pericolosi dei pidocchi stessi; e lungo la via stenti, errori, inciampi… distacco doloroso dalle radici/ E dal mio paese natio/ Preghiere e bestemmie in proporzione/ Tristezze improvvise… Risate col contagocce

Ma alla fine la gioia di tre nipotini… E, tra crediti e debiti/ È stato difficile tenere/ Il bilancio alla pari!/ Perciò quando vado dal Padreterno/ Mi rimetterò alla sua benevolenza.

Sono le ultime poesie dei ricordi, poi ecco quelle che mettono a fuoco le caratteristiche connotanti le quattro stagioni da lui vissute a seconda del tempo, della giornata e dell’umore, per giungere a quella presente che tutte le ingloba. E ci regala le poesie che lo accompagnano oggi e che gli danno ormai una nuova dimensione di sé, nel ricordo di ciò che non è passato del tutto e ancora si riverbera nei giorni presenti, familiarizzando con gli attimi vissuti con maggiore gioia e pienezza di sé, anche perché ha accanto il dono di una donna meravigliosa che lo fa sentire vivo e grato (vedi U PRIISCE, ossia LA FELICITA’).

Incontriamo anche con tenerezza un meraviglioso inno alle scarpe (alla stregua di Neruda e i suoi Inni a tutto ciò che nella quotidianità sembra trascurabile, ma trascurabile non è); attimi d’incanto e di preghiera, alternati a momenti più cupi nel ricordo di passate stagioni e del buio di quelle presenti, delle lunghe notti da vivere nella pece senza pace, onestà, dignità: valori praticati per un’intera vita, oggi senza difese. Ignorati, calpestati, derisi. Mummificati.

Per fortuna, gli corre in soccorso, sempre, la Poesia che gli permette ancora di volare…

Il libro si chiude qui, ma non la scrittura poetica di Luigi Lafranceschina, che in questi ultimi anni l’ha rinnovata in un dialetto-italianizzato, ossia “mescidato”, in cui è facile incontrare nella lingua dei padri un linguaggio più attuale e nella traduzione dei figli le parole vecchie-nuove che si mescolano in un intreccio quanto mai insolito, interessante, sorprendente. Eccone un esempio. Titolo “QUANDO MENO TE L’ASPETTI”: La guerra era nei libri di storia/ E di botto te la ritrovi in casa/ Quando meno te l’aspetti!/ Un mattone che ti cade sulla testa/ Una notizia che ti intossica le ndrame/ Un chiappo che t’affoga/ Un chiancone che ti pesta l’alluce/ Un cazzotto in un occhio/ Una pugnalata al cuore/ Un dente cavato senza addubbio/ Una lancinante colica renale/ Lo scatascio di un ponte sotto i piedi/ Un tramoto che ti scoffola la casa./ E tutto di botto/ Quando meno te l’aspetti!/ Una carogna infame la guerra/ E forse e senza forse qualcosa di più/ Di una sciagura di un cataclisma/ Di vetri in frantumi di pareti sfraganate/ Di un inferno di corpi su corpi ammucchiati…/ E allora apri gli occhi e le orecchie figlio/ Nelle tue mani il tuo domani/ Che la guerra è un diluvio universale/ E manco un’arca di legno a salvarti/ La guerra oggi è la fine del mondo/ E manco un’anima ad accenderti un cero!

E non è soltanto un fatto di lingua e di linguaggio, ma è soprattutto un groppo in gola per la sorte del figlio in un mondo violento e ottuso ad ogni richiamo al buon senso, e per la tragedia della guerra in sé per sé. Nella consapevolezza della inevitabile distruzione del nostro pianeta e della umanità tutta.

Ma, per fortuna, di generazione in generazione, tutto è nuovo e tutto si ripropone.

E Tutto ricomincia anche per Luigi Lafranceschina, con una creatività della mente e del cuore che non conosce stagioni…

domenica 16 marzo 2025

Domenica 16 marzo 2025: ricordo imperituro di GIOVANNI GASTEL: Uomo-Poeta-Scrittore- Artista-Fotografo di fama mondiale... (ultima parte)

Per concludere, vorrei tornare sui miei passi, in un movimento di scrittura, che viene definito “ad anello” per parlarvi ancora delle sue Opere che meglio parlano di Giovanni Gastel, della sua anima, del suo cuore, del suo immenso amore per la scrittura e soprattutto per la Poesia. Ritorno così non al nostro Duetto Profano, ma all’antologia Il Sentimento della Scrittura (a cura di Raffaella Leone della SECOP Edizioni, Corato-Bari, 2021), dove Giovanni scrive: “Come rumore di tempo” Ma la mia è poesia del momento in cui vivo/ Degli addii/ Del rumore del tempo/ Dei ricordi che ricordo semplici e profondi/ Come la vita stessa.

Scrivere è “il rumore del tempo che passa. E ci trasforma, pur lasciando intatta la nostra personalità di fondo. La mia è quella di un sognatore. Eri sdraiata su uno dei materassi/ della terrazza a Filicudi./ Guardavamo la notte scendere su di noi/ come un immenso falco./ Poi hai chiuso gli occhi e hai detto/ - Sopravviveremo anche a questa notte/ senza luna./ C’è un posto per noi anche nel buio sai?/ Ma perché sei così diverso?/ Quasi fatto di vetro leggero/ sempre sul punto di rompersi? - / Ho risposto/ - io vengo da un altro tempo e un altro luogo./ Tu dormi/ presto verrà il giorno nuovo/ nel tuo mondo che non è il mio./ Io scenderò al mare per parlare con l’acqua/ con le rocce/ col vento/ con le conchiglie,/ questo mi è ancora possibile/ solo in questa isola lontana./ Persa nel mare -./ Tu hai rinchiuso gli occhi sorridendo/ come se io fossi stato solo un sogno.

Ecco, questo sono ancora io. Eternamente viandante e naufrago con un bisogno immenso di approdo nelle acque sicure della mia casa: Approdato come un naufrago in una terra/ sconosciuta, ho misurato il territorio e appreso/ la lingua dei nativi. Sono invecchiato raccontando del/ mio mondo lontano, ma ancora la notte nel buio/ sogno navi amiche che mi riportino a casa. (…) - Sto leggendo molto… ora con maggiore adesione… Credo sia merito… o colpa… della solitudine. Leggere diventa una necessità, un modo per vivere altre vite… (…). Di qui il grido di una mia poesia: Provo pena per la sorte/ degli uomini.// Per noi magri ed educati// signori della terra/ analfabeti e rozzi.// Ma nessuno può guardare il mondo/ senza provare commozione.// Il giorno del plotone/ sia benda sopra gli occhi/ questa sconfinata bellezza. E vorrei concludere così: non la filosofia/ o l’esempio/ o i lunghi discorsi./ Sono le quasi invisibili cose./ Il leggero tremolio delle mani/ la linea discendente delle labbra/ la curva pura del dorso/ la ciocca dei capelli che ricade sulla fronte./ Questo mi manca/ e taglia l’anima come una lama/ in questa solitudine che sale/ inarrestabile come marea…;/ Eppure ho inventato e scritto./ Ho raccontato di me e delle mie debolezze/ con feroce sincerità.// Signore dimmi/ cosa ancora/ devo cercare/ in questo deserto di anime/ per essere infine sereno;// Così mio figlio/ avrà un figlio./ Già lo vedo muoversi/ nel ventre di sua madre/ che splende come solo le madri/ sanno splendere./ Come una dea fiera cammina leggera/ sulle terrazze/ nel vento/ col suo miracolo/ nascosto nel cuore./ E io non posso che contemplare/ questo avvenimento eterno/ e insieme straordinario/ che è il crescere di una vita/ dentro un’altra vita/ figlia di una terza vita che non esisterebbe/ senza l’amore di due altri esseri./ È storia di sempre/ davanti alla quale però persiste/ un antico stupore/ estatico/ solenne.   

Dopo queste due meravigliose poesie, mi sembra un sacrilegio riprendere a parlare di Giovanni Gastel e della sua sofferenza nel vivere in un mondo che non gli appartiene e che lo porta sempre più a vivere la sua solitudine come unica possibilità di sopravvivenza. Di qui la ricerca di comunicare con gli amici attraverso la poesia, sua unica ragione di vita, oltre a quella che lo lega a doppia mandata ai suoi familiari:

“Amici dolcissimi”

Amici dolcissimi

non è d’acqua la vostra trasparenza

non di luce che passa tra le foglie

non di gelida neve immacolata.

La vostra è trasparenza d’amore

carico di attenta paura

per me

per la mia disordinata vita

simile a quella di chi cammina sul filo

e a quel filo affida

senza apparente motivo

il suo incerto destino.

(Filicudi 2019)

L’aggettivo “dolcissimi” del vocativo “Amici” del primo verso racchiude tutta la tenerezza di un signore che ha fatto dell’amicizia un nodo d’amore forte e sincero. Non a caso, nel secondo verso parla di “trasparenza”, facendo riferimento all’acqua di una “società liquida” (Zygmunt Bauman), che diluisce sentimenti e li dilava, facendoli scolorire fino a perderli del tutto. Neppure la “luce” era trasparenza d’affetto degli amici né la “gelida neve immacolata”: la prima si sarebbe potuta spegnere negli anfratti ombrosi di foglie che pure ancora verdeggiano in tua assenza tra alberi lussureggianti del Parco di Villa Erba; la seconda si sarebbe potuta sciogliere prima di raggiungere il cuore. Solo l’amore compie il miracolo della verità. L’amore che era, secondo te, l’“attenta paura” per la tua incolumità perché, essendo tu un Artista a tutto tondo e appassionato amante della Poesia, avevi scelto tuo malgrado di vivere da funambolo sui precipizi del mondo e della quotidianità. L’amore è l’“attenzione” che trema per l’altro. L’amore non giudica. Ha solo paura che l’amico possa correre il rischio di cadere. È ansia per la sorte della persona cara, che osa il volo non a tutti consentito. È l’amore che “si prende cura dell’altro” e lo fa sentire compreso, protetto, amato. Sicuro, nonostante le proprie fragilità… oltre il proprio coraggio.

Grazie, Giovanni, per questa splendida poesia dedicata agli amici sinceri… e tu ne hai avuti davvero tanti. Ti era estranea la falsa adulazione, spesso strumentale alla propria affermazione grazie al tuo nome, al tuo prestigio… non sapevi riconoscerla tanto volavi alto. Chi vola troppo alto difficilmente si accorge delle miserie umane. E, quando si accorge suo malgrado del precipizio, rimane attonito e spaventato come uno dei tuoi angeli in caduta libera e in preda a grande smarrimento, a doloroso senso di irrimediabile sconfitta. Ma la Poesia, per fortuna, come portentoso unguento, tutto risana.

E sull’amore, dato/ricevuto ecco un’altra testimonianza:

Così

nel silenzio

parlo d’amore con il mio ricordo.

Ma è difficile distinguere i dettagli

nella nebbia dell’anima.

Sono sorrisi e risa e baci

e corpi donati e poi abbandonati

che si alternano

a formare un grumo i sentimenti indistinti.

Ma questo è il cuore della nostra vita.

Caotico come le scatole dei bambini piene di giochi.

Resta con noi

amore

unico balsamo

che possa ancora dare senso al nostro cammino.

Milano 2020

Negli ultimi due anni, però, e soprattutto nel 2020, sempre più si avvertiva nei tuoi componimenti poetici una sorta di testamento, un messaggio da lasciare ai tuoi cari, agli amici, ai lettori:

Avrei dovuto parlarvi solo d’amore

come i cantanti di un tempo

e certo ora sarei meglio di quello che sono.

Così stanco sapete e come svuotato.

 

Ci vorrebbe una buona notizia

di quelle che fanno esplodere nel cuore la gioia.

 

Invece sono messaggi tristi da fuori e da dentro di noi.

Il tempo, le malattie, la morte altrui

percepite ormai con il distacco di un bollettino di guerra

mentre tu ancora sopravvivi

nella tua sempre più piccola trincea. E guardi la televisione

mangi

poi a letto

col sonnifero che ti riporterà nel vuoto nero

fino al nuovo giorno.

 

Ma domani reinventerò un mondo puro

di bellezza e perfezione

in cui vivo solo.

Milano 2020

Sembra apparentemente un accorato messaggio di sconfitta, ma nella terzina conclusiva ecco rinascere in te la speranza nella tua capacità creativa che annulla tutta la stanchezza del disincanto per farti immergere nel tuo sognato e agognato mondo di “bellezza e perfezione”.

E bellezza e perfezione scoprivi nel miracolo compiuto dalla forzata “clausura” del mondo in seguito alla pandemia del Coronavirus, che stava già falcidiando una parte ingente di esseri umani inermi, sorpresi, sconcertati, impauriti, impreparati alla nuova “peste” del terzo millennio: la natura, purificata dall’assenza nefasta dell’uomo, si stava prendendo la rivincita sulla sconsiderata sua azione distruttiva e autodistruttiva.

C’è un tempo per tacere

per lasciare che le cose accadano.

E noi a guardarle

con la fissità assente delle statue.

C’è un abbraccio che non possiamo pretendere

ma solo sperare che arrivi.

Tutta questa azione è una lettura del mondo

su cui dovremo prima o poi ragionare nel profondo

come frati votati al silenzio.

È bastato un mese senza la nostra disordinata arroganza

E la natura ha portato i delfini a danzare a Venezia.

Milano 2020

E l’esultanza per quella “danza” dei delfini a Venezia, vista con i tuoi occhi di fotografo e cantata con la tua penna di poeta ti ha accompagnato con una insolita speranza fino all’estate, tempo e luogo, nella tua Filicudi, di respiro calmo e di poesie, non senza un pizzico di amarezza per il mondo lasciato alle spalle ma ancora fortemente avvertito nelle tue carni “inquiete e svuotate” che ti chiedevano di scoprire “l’errore”, da cui tutto aveva avuto origine nella tua vita di “sognatore” di sofferta sensibilità e di intima solitudine:

Giorni e notti.

Cosa resterà della nostra storia?

Qualche foto

una stropicciata lettera

troppe volte riletta.

 

Ha assorbito l’inverno questo cielo

e di nuovo io porto nell’estate

la mia fragile vita di parole.

 

Tutto è immobile

tranne il ricordo che si fa reale.

Altri giorni e notti

svuotato e inquieto

cercando l’errore che ha fatto di me quello che sono.

Fragile e combattivo

In questa mia inconciliabile ferita anima.

25 aprile 2020

E ancora, in tempi più recenti:

Come un cane sbandato

in cerca di pace

ho girato il mondo.

Molti cuori

hanno accompagnato

a tratti il mio cammino.

Quasi questa malinconia

fosse una calamita

e i miei occhi uno specchio

in cui ritrovarsi.

Non ho molto da lasciarvi

amici cari

qualche fotografia

qualche poesia…

L’eredità di un sognatore

cascato in un mondo che fatica a capire.

Milano 2020

E un presagio di morte imminente ti ha accompagnato fino al giorno 13 marzo 2021 ed io non voglio arrendermi al pensiero della tua assenza. E con me quanti (tantissimi nel mondo intero) che continuano ad amarti. Ed ecco il pensiero per te in questo giorno di tristezza e rimpianto:

Carissimo Giovanni, quattro anni fa, in silenzio e con la sola carezza del buon Dio a guidarti per mano sei volato nella Luce, lasciando sulla terra la scia luminosa del tuo passaggio intenso e ricco di mille vite almeno. E oggi con la forza ardente della tua immensa creatività illumini i nostri giorni vuoti della tua presenza fisica, colmandoli di tutti i doni che hai lasciato in chi ha avuto il privilegio di conoscerti, incontrarti, viverti accanto.

Le tue inimitabili foto, le tue meravigliose poesie, in cui la tua anima bella vibra di dolce malinconia e rara sincerità, le innumerevoli opere realizzate con geniali dita d'Artista sono qui con noi e vivranno per sempre rendendoti immortale. E sei presente soprattutto con tutto l'Amore che hai donato a piene mani a tutti con generosità, altruismo, umiltà e coraggio in questo nostro mondo opaco, triste, impaurito. Rimani Faro luminoso in tutto l'azzurro che ti appartiene. Ma, nella notte di questi giorni bui, accendi per noi e soprattutto per i tuoi cari tutte le stelle con mani di tenerezza. Oltre le mie mani in preghiera...

Angela/lina, sempre grata a chi ha voluto seguirmi fino ad oggi a parlare (scivere/raccontare/leggere) di un Uomo eccezionale per genialità, generosità e umiltà. Un Uomo che rimarrà nei nostri cuori e in quanti saranno pronti ad attraversare altri decenni del Terzo Millennio con le sue ali d’angelo i suoi voli…

sabato 15 marzo 2025

Sabato 15 marzo 2025: ricordo imperituro di GIOVANNI GASTEL: Uomo-Poeta-Scrittore-Artista-Fotografo di fama mondiale...

Ed ecco il mio commento:

È una poesia di una intensità straziane e dolcissima. Frutto probabilmente di attimi di sospensione dell’anima inebriata e ferita del poeta nel guardare il figlio, che a sua volta lo guarda con “sorriso paterno”, scatenando in Giovanni Gastel, uomo e padre, una ridda di sentimenti, taglienti come lame appuntite che, vinti dalla commozione, deviano in dubbi per lasciargli la possibilità di non rimanerne sopraffatto.

Non a caso, il primo verso comincia con un “ma”, particella avversativa che serve a contrastare i tanti pensieri che lo sommergevano e a liberarsene piano piano. È come se stesse continuando un discorso che prima aveva solo nella mente e che ora, finalmente, trovava un varco per farsi poesia. E subito evidenzia cosa gli premeva sapere, ora che andava facendo spazio tra i tumulti del cuore: e al “ma” si aggiunge la dubitativa “se” e, subito dopo, “di questi” (cioè, eccoli sono qui, li avverto prepotentemente, sono miei!) “sentimenti”: a capo, ad occupare tutto il verso seguente tanto sono grandi.

E, subito dopo, continuando a leggere, mi accorgo improvvisamente che tutte le parole-chiave di questa poesia (che non rispetta i canoni classici della poesia tradizionale, come l’andare a capo con senso finito del verso, senza usare articoli e preposizioni in sospensione): le locuzioni, i chiarimenti di sé a sé stesso, gli stilemi tanto cari al poeta e così connotanti la sua poesia hanno qui un intento d’amore ben preciso: ogni parola (che è necessaria perché è quella e non può essercene un’altra) va a capo e si distende nell’intero verso, occupa tutto lo spazio possibile.  Quasi a farsi colonna, statua, scultura, monumento. Una scala che porti sino al cielo.

Exegi monumentum” (Orazio). Non per la propria gloria, ma per glorificare il figlio, e con lui anche l’altro suo nato, ora assente alla sua vista, ma non al suo cuore di padre.

E ogni verso si conclude con uno slargamento ad eco della parola messa lì, non a concludere, ma a dilatare: incisi nell’anima… potessi fare un canto… finale… quale poesia non… scritta… troverei nel profondo?.

E, ancora: che sia la più densa del… tuo bacio figlio… che sia la più amara… del tuo allontanarti per… la tua via… che sia più definitiva… del tuo osservare la… vecchiaia… scivolarmi addosso… ogni giorno

E sembra di sentire il suono cadenzato delle parole che andavano a costruire quel monumento d’AMORE, quasi mattoni, quasi lastre a dare peso e consistenza e valore a quell’UNICO sentimento immenso e profondissimo, che i pensieri avevano definito, scendendo nelle viscere del suo “Io” più profondo, e che aveva bisogno di calibrare ogni attimo, ogni sensazione, ogni emozione perché si facesse carne viva e non solo sentimento e commozione (il bacio, per esempio, non dato, ma certamente trattenuto quasi si fosse materializzato tra le parole).

L’allontanarsi per (e quel “per” lasciato per strada sembra già un viaggio verso l’ignoto, lo sconosciuto, l’insidia che il padre temeva e contro cui non poteva metterlo in guardia perché avrebbe fuorviato la “via” del figlio, quella che il ragazzo - non più “suo” - aveva scelto per essere sé stesso e riconoscersi).

Gli occhi che osservavano la… “vecchiaia” (e il pudore, per quanto il poeta non riuscisse ancora ad accettare di sé, gli aveva proposto un verbo che non lasciava segni; non si fermava a incidere l’ingiuria di una ruga, ma “scivolava”), “giorno dopo giorno”, lentamente, pesantemente e senza tregua (quasi fosse un martello pneumatico a scavare gallerie di tempo sulla roccia del viso).

Ancora una volta, la fugacità del tempo vince per un attimo tutti i sentimenti che palpitano dentro il poeta e si fanno poesia, per fantasmagarsi (mi si lasci passare il neologismo) nella paura che lo assale e lo attanaglia.

E con la paura (non detta) si ripropone la solitudine, esibita, per crearsi l’appiglio del dolore lancinante del distacco, il solo a dettargli la verità “in forma” di poesia.

È un attimo di smarrimento e di angoscia che si dissipa nella rinata tenerezza per quel figlio che andrà inevitabilmente lontano, accompagnato dal canto dolce del padre nella reciprocità di un amore senza confini che può risolversi, proprio perché tale, in un tenerissimo scambio di ruoli: il poeta, figlio di suo figlio, e suo figlio, padre di suo padre. L’Amore compie questi prodigi.

L’AMORE ha scritto a caratteri cubitali il sussurro stupendo di questa meravigliosa poesia, che accompagnerà il duplice viaggio (del padre e del figlio) lungo le impervie strade del mondo…

E, se per Borges “la poesia è l’imminenza di una rivelazione che non si produce”, per Giovanni Gastel è sempre rivelazione di sé a sé stesso e agli altri.

Grazie per questa straordinaria “Poesia-Verità”.

Ed ora concedetemi la libertà di concludere con alcuni miei versi con dedica a completamento di questo mio percorso critico-letterario

Ho incontrato un poeta

Ho incontrato un poeta

Era di carta e di parole

Era di solitudine e clamori

Silenzi coltivava

come fiori liberi di campo

lui che aveva serre di gladioli

e rose rare nel giardino del cuore

Ho conosciuto un poeta

con occhi grandi di malinconia

ad ogni sorriso alla noia strappato

strappato alla morte e al tempo

che verrà e avrà un giorno nuovo

di foglie e di radici

Avrà la luce di un volto inventato

e un sogno colmo di nostalgia

Avrà un tramonto per ogni canto

deluso e un’aurora di rimpianto

Ho conosciuto la sua anima

col volto in bianco e nero

e ciglia tenere di bambino

e labbra chiare di rosso spino

e azzurro incanto

(mi ha depositato tra le mani

un petalo di cielo…)

                                 Angela De Leo

E anche per oggi va bene così. Spero di non avervi annoiato in questo giorno di pre-festa, come “sabato del villaggio” della nostra anima. E domani, domenica, chiuderò con Giovanni Gastel e il suo dolcissimo e malinconico commiato dagli amici. Grazie. Angela/lina 

venerdì 14 marzo 2025

Venerdì 14 marzo 2025: ricordo imperituro di GIOVANNI GASTEL: Uomo-Poeta-Scrittore-Artista-Fotografo di fama mondiale... (seconda parte)

E oggi mi attardo a fare un necessario confronto tra il suo romanzo, le sue poesie, le sue fotografie, a partire dalla serie mistica ma non troppo degli Angeli caduti che da soli valgono l’intera Mostra: angeli androgeni o decisamente femminili, con ali bianche ancora in volo o nere come la notte. Angeli che precipitano a testa in giù e angeli precipitati con negli occhi la sorpresa, il disorientamento, la dispersione della propria identità in un luogo sconosciuto che fa paura perché nuovo e diverso. Angeli pentiti e angeli senza alcun rimorso o pentimento. Bisognerebbe descriverli uno ad uno. Ci vorrebbe un trattato. Ancora una volta le stratosferiche contraddizioni gasteliane: non angeli che volano, ma angeli che precipitano senza più la speranza di un perdono, di tornare nella azzurra luminosità del Cielo.

Un po’ mi fanno pensare a Giovanni Gastel bambino nel suo Eden dorato e lontano dal mondo degli uomini. La sua desatellizzazione dal nucleo familiare, protettivo e severo nelle sue regole culturali, nel solco di una tradizione etico-religiosa, e tutto in sé conchiuso, è un precipitare nell’abisso di un mondo altro dove il disordine e la violenza regnavano sovrani (non si può non ricordare che l’adolescenza di Giovanni Gastel ha coinciso con gli anni di piombo nel nostro Paese), lasciando il giovane rampollo di una storica casata lombarda in balia di uno sperdimento, che era angoscia, ferita e dolore. Con le uniche risorse che sentiva di possedere: le Immagini, le Parole. Le sue Ali di ricambio per tentare nuovi Voli. Un predestinato? Forse.

Le ultime Ali sono bianche di Salvezza, sono saldamente legate alla fanciulla occhi di sfida sotto un cielo torbido che non promette nulla di buono. Ma le sfide servono a temprare lo spirito, a far superare la paura, a tentare nuovi percorsi, nuove possibilità di rinascita.

“La creatività ci fa rinascere infinite volte”(Erich Fromm).

È quanto affermava Giovanni Gastel, parlando di sé e della sua vocazione all’Arte in tutte le sue molteplici desinenze. Vocazione nata proprio sulle acque del lago di Como, dove aveva incontrato l’Eleganza della natura e lo “splendore delle architetture e dei giardini poggiati sull’acqua”, definendo una Perfezione che si realizzava in una perenne Armonia, rimasta per sempre negli occhi e nel cuore di quel ragazzino irrequieto, ma già tanto attento alla “magia del reale”. Lui era consapevole dell’“immenso” privilegio che gli era toccato in sorte, ma anche dell’“immensa” responsabilità di dover essere sempre all’altezza della situazione, sfruttando al massimo i suoi “immensi” talenti per andare oltre ogni possibilità umana.

Esaltazione e perdizione insieme. Vinte col suo cuore colmo di tanti doni, tra cui il più grande: l’Amore, come dono di sé agli altri.

E l’ironia, con cui aveva imparato a tenere sotto controllo la malinconia, quasi una “saudade” (che i portoghesi o i brasiliani identificano con una sorta di nostalgico rimpianto) per quanto ci accade in un precipitare di giorni che ci danno come un presentimento di quanto non riusciremo più a vivere, ad assaporare nella lentezza di un futuro che ci sembrava eterno e tutto nostro. Ritengo che in Gastel abbiano avuto l’una e l’altra perlopiù lo stesso valore. Non a caso, Maria Corti, scrivendo di Cavalcanti, definì l’ironia la “splendida virtù dei malinconici”.

Con l’ironia e l’autoironia tutto diventa più lieve, sorridente, sopportabile. Persino la propria identità dimidiata. Già l’identità di per sé è un’arma a doppio taglio: dà la certezza della propria unicità, ma anche la responsabilità di sentire gli altri “diversi” da sé. L’identità, dunque, consacra e dissacra. L’ironia tende al compromesso di accettare, con ariostesca o anche manzoniana “bonomia”, sé stessi e gli altri in un processo di salvifica semplificazione della vita. Un banalmente “ridiamoci su”. È quanto si evince sia da alcune situazioni che i protagonisti vivono in “Duetto profano” sia da alcuni versi della raccolta di poesie, sia dalle immagini di alcune fotografie, che non risentono mai delle ingiurie del tempo, e soprattutto da alcune situazioni dialogiche con i propri followers, verso i quali Giovanni Gastel era sempre prodigo di parole affettuose sorridenti e gratificanti, da vero gentiluomo qual era. Ma il tempo stringeva e la malinconia sempre più spesso prendeva il sopravvento, malgrado tutte le buone intenzioni e i buoni propositi, soprattutto onirici.

E così, mentre si andava “facendo sempre più tardi” (Antonio Tabucchi), non era più l’Endimione dell’ultima foto, inserita nella raccolta, in cui aveva gli occhi chiusi per non vedere il mondo e rimanere eternamente giovane (il mito greco e i suoi simboli e i suoi eroi), ma un uomo che aveva avuto migliaia di doni dal cielo ed era fiero delle sue radici per quanto di irripetibile e unico e grandioso gli avevano destinato, e delle sue foglie rampicanti che per istinto ora sapevano le più percorribili vie dell’anima, senza più “gallerie oscure” (Machado), ma luminosi percorsi per afferrare astri di splendore e farsene dono. E farne dono a quanti amava e lo amavano. Ed erano e sono davvero tanti. Potrebbero pareggiare il numero delle stelle?

Oggi solo serenità./ La vita è una struttura fragilissima./ Ma a volte viverla è bellissimo”. 

Ed ecco una delle più profonde poesie di Giovanni Gastel sulla fierezza e incommensurabilità del suo amore paterno, a conferma di quanto detto sin qui:

ma se di questi

sentimenti

incisi nell’anima

potessi fare un canto

finale

quale poesia non

scritta

troverei nel profondo?

Che sia più densa del

tuo bacio figlio

che sia più amara

del tuo allontanarti per

la tua via

che sia più definitiva

del tuo osservare la

vecchiaia

scivolarmi addosso

ogni giorno

Quale voce uscirà da

questa mia solitudine

se non la poesia del

distacco?

La canterò anche per te

figlio

che mi guardi con un

sorriso paterno.

                            Castellaro 2018

Il commento a domani perché è lungo e articolato per cui ci sarebbero altre pagine da leggere e ho verificato che sono state troppe le pagine del 13 marzo. Non so come abbiate fatto a leggerle. Vi sono profondamente grata. A domani, carissimi. Angela/lina

 

 

  

giovedì 13 marzo 2025

Giovedì 13 marzo 2025:ricordo imperituro di GIOVANNI GASTEL: Uomo-Poeta- Scrittore-Artista-Fotografo di fama mondiale…

Oggi ho assoluto bisogno di parlare dell’immenso Giovanni Gastel: l’Uomo, lo Scrittore, il Poeta, l’Artista, il Fotografo di fama mondiale, ma soprattutto mio amico d’anima e di cuore. Non ci conoscevamo da molto, ma era come se ci conoscessimo da sempre. Giovanni aveva una personalità così complessa che sfugge ancora oggi ad ogni definizione perché era eternamente cangiante, contraddittoria, sorprendente. Ma erano forse proprio queste peculiarità a renderlo così affascinante e amabile, amato. E le stesse sue Opere servono a darci di lui una idea veritiera e sempre apparente perché l’Artista guizzava continuamente tra l’essere e il non essere. Ossimoro di sé stesso sempre.

Così in Duetto Profano (SECOP Edizioni, Corato-Bari, 2018), che dà voce a due voci (duetto) che dovrebbero andare in sintonia perché sono strettamente legate al canto “ad una voce” e, invece, divergono per “estraneità” tra i due mondi in cui vivono e agiscono i personaggi Sono due voci legate, ma divise. Forse dei protagonisti, forse delle storie narrate. Forse dello stesso pensiero dell’autore: un giovanissimo, geniale, diciassettenne che voleva cimentarsi con la scrittura, ma era ancora nella fase della ricerca di sé in un mondo che lo voleva incasellare nelle regole del bon ton sociale (e la foto di copertina in bianco e nero, ma con la metà più buia e misteriosa sfumata di rosso, ne è la straordinaria conferma). In una girandola di situazioni e di luoghi che ben si addicono alla dispersione/disperazione adolescenziale, e alla tela di ragno di vite solo all’apparenza tranquille e appagate, ma quanto distanti dall’ideale di sé nella verità del proprio “Io” più profondo e quasi sempre ferito e sconfitto.

Di qui l’eterno ritorno nietzschiano all’infanzia e ai luoghi del cuore: il giardino delle meraviglie, la grande villa silenziosa di Cernobbio, la Milano della domenica e della messa.

Ed era ancora un bambino che guardava il mondo con occhi spalancati, senza fiabe certo, ma un mondo ancora da scoprire, da vivere. E, invece, la morte in agguato lo condizionerà per tutti gli anni a venire. Da quelle immagini in poi nulla sarà come prima. Neppure le parole. Neppure i silenzi che spesso urlano parole mute. Ma il romanzo non può restare senza parole. E il romanzo nel romanzo neppure. Il male di vivere corrode le menti più sensibili.

La quotidianità ha le sue leggi intransigenti sia che si viva in un mondo dorato sia che ci si arrabatti in un ambiente senza pretese e senza voli alti.

Anche Dio, nell’uno e nell’altro caso, è un costante appiglio più per renderlo reo di una sconfitta che àncora di ogni salvezza”.

Dualità profonda sempre in Giovanni Gastel anche di fronte a Dio che ha cercato e rinnegato in ogni suo pensiero, in ogni sua poesia, in ogni scatto ad eternare l’attimo, fino a sentirlo costantemente al suo fianco.

Lo stesso avviene nella raccolta di poesie Io sono una pianta rampicante (Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo-Milano).

“Qui i versi sono liberi, eppure ricchi di figure retoriche per un senso innato del bello, che il poeta avvertiva in sé e trasferiva nelle parole a rendere, nonostante il continuo disincanto, un’atmosfera incantata per l’armonia interna che vi regnava”. Soprattutto nel rammemoramento dell’adolescenza e il suo splendore ancora intatto.

Ma è un idillio che non poteva durare. Le contraddizioni ebbero subito la meglio e quella che sembrava un’età felice si vestì di mille apprensioni e di presentimenti che tolsero smalto e fervore di vita ai giovanili anni, e tutto divenne cupo, buio, misterioso. Il corpo languiva e la mente era soggiogata da tetri pensieri di morte, ritenuta assassina, e responsabile di tante immense paure. Le anime più sensibili vivono questi abissi prima di assaporare la piena giovinezza.

“Con Gastel era come viaggiare eternamente sulle montagne russe, niente era scontato e sempre uguale, neppure lo stato d’animo di un attimo prima corrispondeva alla certezza dell’attimo dopo. Tutto veniva affermato e smentito, pur nella realtà del momento, pur nell’incubo che ne conseguiva. Il passare del tempo gli procurava angoscia, ma anche il dover vivere ancora una notte gli pesava tanto quanto i demoni a visitarlo, oltre le barriere del buonsenso e dei freni inibitori per vivere con gli altri, in mezzo agli altri”. Eppure, non avrebbe mai voluto una vita regolare, semplice, serena, perché sarebbe stata in antitesi con i tumulti del cuore e della mente: “la storia degli uomini è/ nell’angoscia della foresta”.

Per fortuna, la scrittura. Necessità di vita era scrivere con le prime ombre della sera per salvare un giorno “vuoto” che finiva, e per salvarsi da quel vuoto che era voragine e disperazione.

“… ad addolcire un altro giorno vuoto/ di cui non conserverei memoria/ se non per i neri segni che a sera/ inciderò su un foglio bianco.

Ed ogni parola, sia pure inconsciamente o intenzionalmente, era scelta con cura, calibrata nella sua profondità. “Incidere”, per esempio, è azione molto più “incisiva” più forte e determinata di vergare o scrivere. I “neri segni”, piuttosto che i segni neri, riguardano una locuzione che ha una diversa valenza semantica: è una sorta di anastrofe che rende più leggero il segno e lo connota come scrittura.

Io sono un disperso (…) che (…) affida se stesso/ alle parole che scrive.

Ed era un affidarsi totale, quasi un “naufragare” di leopardiana memoria.

C’è una sorta di eternità delle parole nelle voci che ci appartengono, che riconosciamo e teniamo per noi. Ci sembra quasi di averle dimenticate. Poi, basta un richiamo, una frase, una eco ed ecco ritornare prepotentemente a farci gioire o soffrire e la nostalgia ci prende, come per ogni ritorno (nòstos), che è gioia, ma anche dolore (àlgos).

E, del resto, … All’origine tutto era parola.

E qui il richiamo biblico è forte. E il richiamo al Verbo che era presso Dio ed era Dio. Il Verbo ha una parola sola. Una sola Verità. Basta riconoscerla. Ma con presunzione gli uomini la cercano nella scienza, che non possiede verità, ma parziali porzioni di conoscenza, suscettibili di essere confutare e capovolte, nel tempo e nello spazio. La cercano nella propria mente, ma non è la razionalità a dare risposte chiare e definitive. Nel cuore che è un “guazzabuglio” di sentimenti e di risentimenti. Forse solo “oltre il muro d’ombra”. Ma forse sarà troppo tardi per credere e per sperare.

La fede, unica ancora di salvezza? Forse. Se avessimo il coraggio di credere. È più facile negare che ammettere. Diceva lo stesso Gastel, in versi, in prosa, con gli scatti delle sue foto che vibravano di bellezza ma non di verità. Perché ciò accadesse, Giovanni Gastel cercava nelle sue modelle l’anima. E l’anima cercava nelle parole. La cercava in sé stesso. Non si lasciava influenzare dalle regole e dalle mode. Scriveva come in quel momento gli dettava il sentimento. Scriveva versi diversi.

E, del resto, ognuno può esprimersi come meglio crede purché ci sia emozione, ci sia Poesia.

Credo sia una conquista pluralistica nella complessità del mondo contemporaneo. Anche la commistione di generi artistico-creativi fa parte di quella ricerca del nuovo nel rispetto della classicità e del sentimento profondo che la sostiene. L’unica ricerca che potrebbe pacificare il mondo interiore con quello esteriore, in una adesione reattiva alla società del post postmodernismo e del recupero dell’autenticità del linguaggio e della vita.

In Giovanni Gastel tutto questo veniva messo in atto in tutte le sue opere, fino a connotare una scrittura narrativa e di comunicazione sincera e immediata. Risolvendosi persino nella accettazione delle proprie ombre per superare i condizionamenti di una cultura familiare, che ancora lo affascinava e lo legava, con lacci d’amore, certo, ma anche con la fragilità che ne derivava. Si pensi ai mai spenti dialoghi con l’amata madre, con il rimpianto fratello, perso alla sua vista, ma non al suo cuore.

Bisognerebbe leggere ogni verso per comprendere l’eccezionale sensibilità etica, affettiva, emotiva ed estetica di Giovanni Gastel e per comprendere appieno la natura dei suoi tormenti.

‘Io sono una pianta rampicante’ è uno scrigno prezioso di ritratti di famiglia, di spazi vuoti (‘i margini di silenzio’ di Paul Eluard?), di luoghi e date, di poesie perlopiù senza titoli e senza soluzione di continuità. Quasi un racconto poetico lungo, fatto di improvvise emozioni, percezioni della realtà ed echi di memorie lontane nel tempo e nello spazio, ma vive più che mai nell’anima del poeta, in un “infinito presente”, che, nel suo modo e tempo verbale, azzerava ogni passato e ignorava ogni futuro per attualizzare, in un unico istante, tutta una vita.

Io sono una pianta rampicante’: titolo molto suggestivo, ma già di per sé ossimorico” (come del resto anche il titolo del romanzo e come gli stessi campi semantici di numerose sue fotografie. Vedi la serie degli ‘Angeli caduti’), connotativo della stessa personalità dell’Autore, coacervo di laceranti contraddizioni, di cui la sua Arte e il suo Genio si nutrivano…

La cultura familiare, radice profonda e indistruttibile, e le rigide regole ad essa sottese erano, comunque, gabbie dorate, troppo strette per i suoi voli pindarici. Voli troppo alti, che avvertiva a suo danno: la solitudine dell’“albatros” (Baudelaire) o dei “numeri primi” (Paolo Giordano), ma anche a suo appagamento per la genialità che gli concedeva di forare il cielo e sentirsi incontaminato e compiutamente sé stesso. E tutte le contraddizioni alla fine si ricomponevano in Unità: Giovanni Gastel era tutto questo e non può essere diversamente. Tutte le sue opere visive e quelle letterarie hanno firmato la sua genialità. La sua umanità.

Oggi Giovanni Gastel sarebbe stato sempre dimidiato tra la libertà del volo nel suo mondo di sogno e il franare malinconico e disperato nell’abisso di una realtà che fa ancora male e che avrebbe voluto dimenticare per non avvertire le ferite e il disinganno. E le sue Foto e i suoi Scritti ne sono la inconfutabile conferma.

Anche nel “Catalogo” (curato nei minimi particolari nella stessa immagine di copertina evidenzia tale dicotomia nella sua innegabile unità: il bianco luminoso delle ali in volo verso spazi sempre più alti e più ampi, e il nero abissale del tunnel ad avvolgerlo ad ogni contatto con la terra e con il mondo della realtà e della concretezza. E, al suo interno, il Teatro gasteliano: Le sue Immagini. Le sue Fantasie. I suoi Personaggi che si raccontano e lo raccontano. In ogni simbolo. In ogni verità. In ogni passaggio esistenziale e artistico a descrivere fortemente i suoi percorsi umani e professionali.

La prima foto non smentisce quanto detto sin qui. Ecco una donna-conchiglia di un bianco avoriato su sfondo nero, con una particolarità: il volto assorto ed enigmatico con lo sguardo lontano è diviso a metà dal vortice della conchiglia che crea trasparenze lunari nella metà che avvolge, lasciando in ombra l’altra metà. E persino il fiore rosso delle labbra chiuse risente della dimidiazione tra segreti di voci da riportare all’orecchio in un turbinio di onde senza fine, e segreti di voci da dimenticare nella penombra scura di ogni tormento (Gastel e la sua anima di pari passo con la sua Arte). Anche la seconda foto gioca la sua misteriosa essenza sul bianco e il nero, questa volta non più divisi, ma sapientemente annodati in volute che labirintano una donna-fiore e gambo esile su cui esplode un fiore (gardenia o camelia), attraversato da onde di luce, o una donna-cigno, pronta a spiccare il volo con le sue mani-piume in una posizione di slancio, frenata appena dalla sospensione di occhi titubanti e perplessi, in attesa di un vaticinio che la spinga ad osare…

(illusioni sotto le varie maschere che il Teatro rende vere. Dove la verità solo nella finzione o viceversa? Il dubbio rimane).

E per oggi può bastare, ma nei prossimi giorni continuerò a parlare di lui e della sua genialità mista a generosità e umiltà. Giovanni Gastel era tutto questo e molto altro ancora… Grazie sempre della vostra attenzione e del vostro affetto nel seguirmi. Angela/lina

martedì 11 marzo 2025

Martedì 11 marzo 2025: il SILENZIO ha VOCI che sussurrano in silenzio ma non troppo... (terza e ultima parte)

È bello ritrovarsi nel silenzio: è legato alla necessità di sentirlo dentro mentre vibrano le ali del cuore e quelle dell’anima, che non ha tempo né spazio, in quanto è essa stessa spazio e tempo con una sua “intelligenza”, che lo statunitense Daniel Goleman definisce “emotiva” e riguarda i sentimenti, le passioni, l’empatia. E si avverte tutta la poesia di un’anima fortemente sensibile quando anche si porta dentro “persone come boccioli da far sbocciare” e “le stelle sparse della sua memoria” perché facciano luce nelle storie degli uomini e delle donne che, altrimenti, sarebbero ingoiati dal silenzio dell’oblio. E proprio perché nessuno finisca nell’oblio della dimenticanza, neppure le persone che fanno parte del mio passato di ragazzina, essendo ancora a ridosso o quasi della Giornata Mondiale della Donna, io amo ricordare le donne della mia infanzia, che mi sono rimaste nel cuore. Le ricordo, quasi tutte, molto pratiche e molto sole. Ma anche molto ingenue. Ignoranti. Analfabete. Non sapevano. E si accontentavano di non sapere. Quasi fosse normale, giusto così. Erano brave massaie. Semplici. Tristi o ciarliere e tutte timorate di Dio. Attribuivano a Lui ogni calamità, ogni malattia, ogni dispiacere. E si rassegnavano alla loro sorte e alla Sua volontà. Sembrava non avessero ansie né dubbi. Vivevano come respiravano. Accettavano la vita così come veniva ed anche la loro fede era così come veniva. Senza ribellioni. Senza ripensamenti. Ho molto amato quelle donne semplici, rassegnate, forse anche scontente, forse anche rancorose, ignare della problematicità dell'esistenza, ma sempre pronte a portare sulle loro fragili (in apparenza) spalle il mondo, sempre pronte a farsi un segno di croce per propiziarsi Dio per sé e soprattutto per gli altri, per scongiurare un pericolo, una malattia, la morte. Sempre pronte a darsi una mano. Con la sola “intelligenza del cuore”. La più importante, a mio parere. Per comprendere gli altri e per andare incontro agli altri. dimentiche solo di sé stesse. Donne senza tempo. Senza età. Senza storia. Forse. O, molto più probabilmente, ero io che non sapevo dare loro un'età, che ignoravo il loro tempo, che fantasticavo sulle loro per me inesistenti o inconsistenti storie, che sicuramente erano, invece, storie di lutti, di dolore, di rinunce, sacrifici, silenzi. Quanta Solitudine e Silenzio nelle loro storie. Le loro storie. In realtà, solo apparentemente uguali, ma quanto diverse?

Probabilmente erano giovanissime e giovani o quantomeno non molto anziane, ma per me erano tutte irrimediabilmente vecchissime. Con i loro scialli vecchissimi, i loro grembiali vecchissimi. Nelle loro case vecchissime con i vecchissimi pavimenti di cemento raramente lavati e travi a vista sotto i soffitti, da cui pendevano le carte moschicide (non avevano neppure il tempo di scacciare le mosche) accanto al piatto di vetro plissettato, come una vezzosa gonna, a coprire la smilza lampadina con fioca luce. E sedie impagliate e madie infarinate e santi e morti sul comò e sui comodini con lampade votive e lumini. E voci di preghiera nella sera. E vecchi riti che perpetuavano comportamenti e ostacolavano il cambiamento. Anche per strada andavano in giro coperte alla bell’e meglio con vecchie sciarpe, sferruzzate con lana grezza, che ricordavano vecchi corpi e vecchie stagioni di velli di pecore tosate e di fusi e conocchie tra mani rugose e stanche (la bella addormentata con il principe a salvarla era una fiaba da loro ignorata). Loro che ninnavano i loro piccoli nelle culle di legno e non raccontavano fiabe ma le cantavano a loro modo, stancamente, sfibrate dal lungo giorno di lavoro come massaie nella propria casa: ninnananna uè la ninnananna u lupə s’è avvəcə natə u lupə s’è avvəcənatə alla capanna… ninna uè o la ninnananna uè, u lupə s’è mangiatə, u lupə s’è mangiatə la picurella, ninna sunnə e uè la ninna sunnə e stu məninnə nan teinə, nan teinə sunnə.

E quasi tutte quelle donne, ricche o povere, giovani o vecchie, erano vestite di nero per un lutto che non riuscivano mai a dismettere nel cuore e nelle vesti. Tre anni per la madre o il marito, due per il padre, l’intera vita per un figlio…

Erano queste le donne della mia infanzia: molte poverissime e analfabete, pochissime le ricche e istruite. E nessuna proprio nessuna che cantasse mai. Le sentivo cantare solo in chiesa e dietro le processioni e mai mai in casa o per la strada. Troppa miseria e troppo dolore per lasciarsi andare al canto. Troppa ricchezza e troppa alterigia o dignità non consentivano loro ad andare per le strade…

Le ho descritte e cantate tutte, sempre, le donne di quel lontano passato. In mille modi. In prosa. In poesia. Le tante donne della mia infanzia sono ancora qui, in me. Donne che non fanno storia, che pure hanno vissuto, amato, odiato, riso, pianto, chiacchierato, ubbidito, ricordato, sperato, pregato. Donne lontanissime nel tempo e a cui tento di dare una storia perché non si perdano del tutto nel tempo. (Potere della memoria e della parola scritta. Ma potere anche della fantasia che a quella memoria aggiunge parole mai dette e vite mai vissute. La narrazione fa rivivere il passato e appaga la mia gioia di raccontare…).

“Scrivere vuol dire farsi eco di ciò che non può cessare di parlare…” (Maurice Blanchot).

Oggi, è vero, di loro non rimane che un labile ricordo. Diafano. Trasparente. Vago. Lontano. Incerto. Rimane in chi, come me, ha anni addossati agli anni e vive e rivive anche il passato cercando di riattualizzarlo nella memoria perché non muoia del tutto.  Ma neppure il ricordo serve a riportarle ai nostri giorni. Sono anacronistiche. Sono distanti anni-luce dai modelli che le ragazze amano, seguono, contestano. Sembrano vissute invano e, quindi, non vissute. Si perdono in quella caligine oscura che il passato trasmette alla mente di chi c’era. Erano solo croci su croci: una croce, il marito; una croce, i tanti figli nati e, magari, morti nello spazio di un solo giorno (le malattie infantili falcidiavano impietosamente tanti fiorellini di prato appena nati), e altri da mettere al mondo “come conigli” (cfr. la canzone del bravissimo De Gregori “Generale”); una croce, ogni dolore muto, ogni ribellione repressa, ogni parola ingoiata. Una croce, l’unica identità come firma da apporre sui rari documenti che affermavano civicamente il loro essere al mondo. Spreco di vite. Davvero inutili? Non voglio crederlo. Non posso crederlo. Distruggerei quella gòmena d'amore e di rapporti che ha legato e lega le generazioni al femminile perché non si perda la storia dell'umanità. Per questo io amo ricordare e raccontare lacerti di storie che la mente mi restituisce a tratti, e volti e nomi e parole, sottraendoli alla dimenticanza. Rimpasto quelle donne per farle rivivere… (sono brevissimi stralci dei tanti che riguardano quelle donne tradite dalla storia e vinte da una cultura che le voleva serve, mentre erano padrone di sé e dei loro giorni per la forza titanica dimostrata nelle loro case, prive degli uomini andati in guerra, e affollate di bocche da sfamare per sopravvivere…  brevissimi stralci, dicevo, tratti dal mio libro Le piogge e i ciliegi, vol I e II SECOP Edizioni, Corato-Bari, 2016 - 2018).

Alla prossima. Grazie. Angela/lina 

giovedì 6 marzo 2025

Giovedì 6 marzo 2025: IL SILENZIO... alla ricerca di una possibile tregua per vivere al meglio il Nuovo Anno... (seconda parte)

In questa seconda e ultima parte, vorrei partire dall’inizio di questa mia storia per comprendere meglio il seguito. Tutto è cominciato da un ritrovamento fortuito: mettendo un po’ di ordine tra i miei tanti libri, mi è scivolata una pagina di quaderno scritta a mano, senza data. Un mio racconto scritto alcuni anni fa e probabilmente mai pubblicato. Non ricordo. Ma eccomi qui a trascriverlo. L’ho intitolato “Solitudine e Silenzio” per dargli una identità. O forse per centomila altri motivi:
Del resto, NEL SILENZIO, le cose in silenzio si raccontano: il silenzio della quotidianità, della natura, del paesaggio, della pioggia, del mare, da lasciare intatto nel tempo, dilatandone il senso e il significato.
È come stare al buio e incontrare il silenzio delle stelle. È come avvertire la calma del silenzio dilatato dopo una tempesta, dopo il pianto prolungato di un bambino, dopo la caciara di una sagra paesana, dopo il terrore assordante della guerra. Assaporarlo dopo l’inquinamento acustico dei nostri giorni e scoprire che c’è e che ci salva: invocato, atteso, benefico, molteplice nei suoi significati altri che mille occhi attraversano senza scoprire e che il silenzio rende più visibili e profondi. È come penetrare un mistero. Il linguaggio misterioso delle cose, che tra l’altro, in una società distratta dal chiasso, vuota di senso e ricca di teorizzazioni, ammalata di individualismo e assoggettata a considerazioni astratte che spesso sono solo elucubrazioni virtuosistiche della mente, riporta il nostro sguardo sulla “cosalità” perduta, sulla materica composizione del mondo come soglia di ogni altro pensiero, di ogni altra conoscenza. Fisica e metafisica. Queste ultime partono dal silenzio delle cose, per “vederle” oltre che guardarle e scoprirle e valorizzarle. Per ascoltarle.
Silenzio, perciò, è una parola che mi piace. Se penso al silenzio che fa parlare il cuore. Come diceva mio nonno quando sorprendevo lui e mia nonna seduti vicini nella penombra della sera, dopo aver recitato il rosario, dietro i vetri di casa, in silenzio, a salutare il buio che annullava le cose e i rumori e le voci del loro piccolo mondo: la strada di casa, allora ancora un po’ in periferia o la semplice via di un amore che li teneva indissolubilmente uniti. Sereni, nonostante gli innumerevoli dolori e dispiaceri da entrambi vissuti.
Anche a Primo, il mio tempestoso compagno per circa quarant’anni, piaceva il silenzio del nostro raccontarci con gesti d’amore il giorno, lui che aveva come codice preferito di comunicazione l’urlo, e si meravigliava del mio accoglierlo in silenzio, “senza lo scontro”. Se torna il silenzio: era una aspirazione ed una invocazione. Una necessità di vita per riscoprirci insieme.
Ma silenzio… è anche una parola che mi sgomenta, quando penso al silenzio che crea un vuoto; che separa con fratture e divisioni; che è culla di odio e di rancore; che cova vendetta; che coltiva un equivoco e lo fa ingigantire nella mente; che nasconde un sentimento mai svelato e, quindi, mai conosciuto e riconosciuto, mai vissuto nella pienezza del gesto, oltre che delle parole. Silenzio atteso e temuto, dunque. Silenzio invocato e nutrito. Infranto e chiacchierato. Silenzio raccontato.
Il silenzio è il nulla prima del Big Bang, esplosione del Creato. Che si racconta con le cose. La materia, innanzitutto. Generata dal nulla per un atto di Energia purissima. Come direbbe un mio amico poeta e chimico. È il vuoto tra due rumori, tra due suoni, tra due parole. È attesa e ricordo. Speranza e rimpianto. Il pudore e il timore. L’invocazione muta dell’anima. La preghiera. È la cattedrale gotica che s’innalza con le sue guglie al cielo in una penombra che invita al raccoglimento per ascoltare meglio “le voci di dentro” (Eduardo o Dacia Maraini ne hanno parlato con dovizia di particolari): quelle che ci parlano dell’invisibile che è in noi e fuori di noi. L’arcano, il mistero, il sogno. L’indicibile perché tanto più grande delle parole per esprimerlo. L’immenso. Lo stupore. Il linguaggio dell’Universo. L’incontro insaputo con Dio...
“Il silenzio come momento aurorale dell’ascolto” (Massimo Baldini).
Solo dopo è possibile cogliere l’armonia e la dissonanza: di rumori, suoni, musica, parole. “Il nostro è un tempo senza silenzio, senza armonie, è un tempo colmo di convulso fragore… La chiacchiera è la sola parola possibile in tempi in cui il silenzio è morto e regna sovrano il rumore… A ben guardare, la chiacchiera è la parola di tutti coloro che vogliono solo parlare e mai ascoltare, è la parola superflua, inefficace” (ancora Baldini). Il filosofo e scrittore Michele Federico Sciacca scrive: “Chi chiacchiera non si preoccupa di comunicare, ma solo d’infilar parole che non dicono niente. Non persuade, né convince; stanca e infastidisce. Non lo ascoltiamo, né, in fondo, a lui interessa l’essere ascoltato”. Ascolto e silenzio, dunque, devono procedere insieme. Entrambi si fanno inavvertitamente silenzio e ascolto interiori. Ignazio Silone afferma che: “Il silenzio interno significa che ogni cosa è al suo posto, ogni cosa è in ascolto”.Alfred De Musset sostiene che: “La bocca custodisce il silenzio per ascoltare il cuore che parla”.

Ma occorre fare attenzione perché a volte il silenzio può essere la morte dell’ascolto. Si tratta del silenzio cupo, ostile, desertico, offensivo, di isolamento e rifiuto, di cui ho già parlato. Ma esiste il silenzio agognato e amato in tanto frastuono che ci sovrasta.

QUANDO TORNA IL SILENZIO

È un silenzio nuovo del nuovo giorno
- penombra di canto e silenzio di sorrisi -
i bambini lasciano parlare il cuore
coltivando un amore grande
che sa di luce anche quando la sera ci sfiora
e accarezza la vita appena nata.
Prodigio del sogno accarezzato e preghiera
sussurro del giorno che comincia
e racconta il mistero della nascita
al canto della natura
(che non teme la solitudine
dei balconi senza bimbi ad imbrigliare il cielo).


Penombra e Silenzio, dunque, lasciano parlare il cuore, coltivando un amore grande per le ombre che sanno di luce e per la luce che si fa ombra quanto più è presente il sole. Penombra e Silenzio si fanno compagnia. Accarezzano le stesse cose. Intuiscono le verità in esse nascoste in attesa di scoprire la Verità che tutte le comprenda e le inglobi. Si sostengono e si completano. Si arricchiscono di senso e danno un significato più profondo alla vita.
Annah Arendt afferma che solo nel silenzio e nella penombra è possibile conoscerci e riconoscerci. E la conoscenza di sé e il proprio riconoscimento danno all’essere umano la giusta dimensione di quello che è nel mondo e gli evita errori di valutazione e di autovalutazione. Di sovraesposizione. Come accade ai figli dei grandi, dei potenti, degli uomini di spettacolo, sempre sotto i riflettori, sempre immersi nel clamore della folla col rischio di perdersi, lacerati in tanti minuscoli sé di cui la cronaca famelica s’impadronisce. Divorati dall’ansia di apparire o dalla paura di non essere visibili. Di non farcela. Di non essere all’altezza della fama dei loro genitori. Bruciati da soli artificiali che tolgono respiro e abbagliano e accecano e disorientano e sfiniscono, distruggendo l’intima essenza della loro umanità. Della spiritualità. Il clamore è spesso il fallimento della nostra autenticità, perché il più delle volte ciò che appare non è.
Ci occorre e ci soccorre il silenzio. Quello che ci riporta alle parole mute delle cose, alla loro storia nascosta e forse dimenticata. Al canto della natura. Al sussurro del giorno che comincia e si racconta in un segreto d’intenti, e di passi per realizzarli e di gesti per costruirli, perché ogni giorno sia un giorno nuovo e aggiunga qualcosa di diverso alla nostra vita. Alla consapevolezza di quello che siamo realmente, indipendentemente da chi ci ha generati. Si tratta di libertà di essere per quello che siamo e possiamo essere. Niente di più. Niente di meno. In tutta la nostra pienezza e autodeterminazione. Diamo agli altri quello che possiamo e penso sia il solo modo per dare quello che siamo. Autenticamente noi. E di questo dobbiamo essere fieri e appagati. È questo tutto l’Amore possibile. Forse mai misurabile. Ma è Amore. E, se è, non necessita di alcuna differenza, alcuna misurazione. Ci aiuta nel faticoso, gioioso, tormentato, chiaro, complesso, semplice nostro andare per le strade della vita. Da soli. Con gli altri. Viandanti in uno spazio e un tempo che ci appartiene e che pure non è nostro. Di cui forse dobbiamo dare di conto, per ascoltare il respiro intimo di una strada silenziosa, il sogno segreto di una molletta innamorata del sole, l’ardimento dei cavi elettrici ad imbrigliare il cielo, la solitudine di un balcone senza bimbi.
E oggi sono ancora qui a scrivere di tutto questo per lasciare ai giovani e giovanissimi un messaggio di Amore e di Speranza, in un mondo sempre più difficile e alla deriva. E non si può più sperare nel silenzio a soccorrerci. Occorre superare il silenzio e parlare per vincere anche la solitudine.
Leggo molti loro testi di poesie e di canzoni che sono pieni di sconforto, di rifiuto di vivere, di parole violente e blasfeme che sicuramente i ragazzi scrivono sotto l’effetto di droghe sempre più devastanti. Ho pena per loro anche perché molti sono giovanissimi e già sono violenti, aggressivi, spietati nelle loro “esecuzioni” aberranti contro i più inermi (vecchi, donne, ragazzine, bambini). Occorre fare qualcosa.
E forse la prima cosa da fare sarebbe ascoltarli. Ne hanno bisogno come non mai. Tutti li colpevolizzano, ma nessuno li ascolta: non i nonni non sempre frequentati o ascoltati, non i genitori spesso assenti per tanti motivi, non ultimi i diversi modelli di genitorialità che offrono, favorendo il più delle volte la dispersione dell’identità, già normalmente presente negli adolescenti. Gli insegnanti sono portati più a completare i programmi annuali che a dialogare dei reali bisogni dei loro alunni e studenti in “posizione di ascolto”, e i social contribuiscono alla solitudine reale velata da pseudo amicizie virtuali. E si perdono e li perdiamo. Nella nebbia fitta che non ci permette di “vedere”. Nel rumore assordante dei nostri giorni in cui non riusciamo a “sentire”, e in questa società “liquida” (ancora Zygmunt Bauman, da poco venuto ad abitare le stelle) che ci scivola tra le dita senza permetterci di afferrare la loro anima e uncinarla al nostro cuore in “posizione di ascolto”, tutto si perde e niente più si raccoglie. Ma anche per tutto questo dobbiamo ascoltare innanzitutto il silenzio perché, poi ecco vibrare nel silenzio i colori delle cose. Morbidi, luminosi, mai accecanti. Sereni e rasserenanti. Nella contemplazione di quanto ci circonda e ci ricorda la vita: un petalo rosso di rosa stupito tra tanto azzurro… una strada d’estate oltre il volo alto dei gabbiani… grovigli di rami e di tubi nell’artificio di ciò che è umano e di ciò che ignora l’uomo… L’apparente assenza dell’uomo/donna è presenza costante della mente e del cuore, che non hanno bisogno di un corpo messo in mostra o esibito per esserci. L’uomo o la donna sono là dove lo sguardo dà vita alle cose, annota una realtà che emoziona; dove un oggetto è frutto del loro ingegno e delle loro mani; dove una goccia di pioggia rende il proprio cielo liquido nel mistero della inquieta somiglianza con le lacrime.
E c’è ancora un silenzio a creare atmosfere in sospensione tra la realtà e la magia di ciò che va oltre la realtà… Il silenzio cantato dalla natura. Nenia triste del mare. Allegria di bianchi spruzzi a riva. Sfinimento di languide onde alla battigia. Paziente attesa di pescatori con canna e lenza e amo sotto il sole. Hemingway ritorna ad affascinarci con una barchetta che ricorda il suo vecchio Santiago nella estenuante lotta con il mare e con un pesce enorme che dopo ben ottantaquattro giorni gli si consegna vinto, in un allucinato silenzio che urla tutti i suoi ricordi, oltre le parole che non serve più dire…

Ma, in tutto ciò che si narra, si ascolta, si scrive, si legge, si vive insieme, in una coralità che vince la solitudine e il silenzio, fioriscono versi di autentica amicizia, autentico amore, autentica Poesia…

Vi abbraccio in silenzio, ma col cuore che parla in un sussurro di conchiglia da portare all’orecchio e ascoltare... Alla prossima. Angela/lina